La montagna. Il luogo dove vive il futuro. Parla Marco Albino Ferrari
La montagna è un laboratorio di nuove pratiche differenti dal passato. Lo sostiene Marco Albino Ferrari: «I riconoscimenti come quello Unesco portano a un turismo mordi e fuggi». Su Cortina 2026: «È il massimo dello scempio. Si conferma la tradizione predatoria che questi grandi eventi hanno nei confronti dell’ambiente»
«La montagna è un luogo del futuro, un grande laboratorio, un luogo che porterà benefici in quanto richiederà di fare delle rinunce. Perché in montagna non si possono perseguire gli stessi modelli di crescita che hanno trionfato in passato». Lo afferma Marco Albino Ferrari, giornalista e scrittore, tra le voci più autorevoli in Italia in tema di montagne che il prossimo 3 agosto sarà a Recoaro per presentare il suo ultimo libro Assalto alle Alpi, un agile saggio pubblicato da Einaudi in cui denuncia i pericoli di un (fallimentare) sfruttamento turistico intensivo e della stereotipizzazione di territori, culture e persone alpigiane. L’incontro con Ferrari, che sarà ospitato dal Teatro Lux con inizio alle 20.45, avviene nell’ambito della rassegna organizzata per ricordare i 70 anni della conquista del K2, impresa compiuta da una spedizione tutta italiana che annoverava il recoarese Gino Soldà, all’epoca 47enne, assieme a grandi nomi di allora dell’alpinismo italiano (o che lo sarebbero di lì a poco): Ardito Desio, Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e Walter Bonatti, per citarne alcuni. Nel suo libro offre una panoramica del “continente” alpino che va dalla quota zero di Montecarlo a quelle friulane. «Questa distinzione andava più in voga un tempo ma ora ha perso forza. Le Alpi, appunto sono anche Montecarlo a quota zero sul livello del mare, oppure una città come Trento, che è a 190 metri di altitudine, ma è a tutti gli effetti una capitale alpina. Di Recoaro direi che è un luogo dove si sono stratificate varie epoche del turismo in montagna. Dall’inizio del Novecento al boom come stazione del benessere, poi il tentativo di seguire l’onda dello sci, non finita bene. Oggi si sta riconvertendo su scenari più positivi legati all’escursionismo nei suoi vari aspetti: a piedi, in bicicletta, con le ciaspole…».
Quindici anni fa, il 26 giugno 2009, le Dolomiti sono state iscritte nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Ci fu un po’ di rimpianto perché le Piccole rimasero fuori. Secondo lei fu un bene o un male? «Assolutamente un bene. Esiste un turismo legato ai siti Unesco, mondiale, che porta i viaggiatori a collezionare luoghi e monumenti con visite mordi e fuggi, estemporanee. È un tipo di turismo che accosta Venezia alle Dolomiti o alla Reggia di Caserta. Personalmente sono sempre più distante dall’idea di dover etichettare un luogo, sia che ciò avvenga con una bandiera arancione o con una stella. Tutto questo porta all’autocompiacimento, ci si adatta all’etichetta e si fissa sé stessi dentro a uno stereotipo, si confeziona lo stesso territorio per poter essere etichettato. Credo molto di più a buoni piani regolatori e alla lungimiranza di chi quei luoghi li vive. L’Unesco non ha nessun potere di vincolo e così abbiamo visto aumentare la pressione turistica sulle Dolomiti, a danno del luogo stesso».
La sua non è una voce solitaria nel panorama italiano, tuttavia chi continua a battere sul tasto dell’aumento dei flussi turistici e sullo sviluppo edilizio in montagna non pare avere freni. Cortina sembra l’esempio più lampante di questo, non crede? «Cortina è il massimo dello scempio, tutto finalizzato a un solo grande evento, le Olimpiadi invernali del 2026, con la creazione di infrastrutture che non hanno futuro. Non si è dato ascolto alla voce dei locali e non si è nemmeno mantenuto l’impegno sulle promesse fatte al Cio. Le Olimpiadi dovevano essere un evento sostenibile. Stanno invece confermando la tradizione predatoria che questi grandi eventi hanno nei confronti dell’ambiente».
Tutto questo in un contesto di cambiamento climatico repentino. C’è consapevolezza? «Per acquisirla ci vorrebbe un trauma, invece così è come una bomba che esplode lentamente. E noi ci adeguiamo passo dopo passo senza renderci conto di ciò che accade e credendo che la situazione che viviamo, il nostro momento presente, sia la normalità. Siamo dipendenti da questo fenomeno di adattamento costante. In più ci sarà sempre la voce di chi dirà “non credete a questi profeti di sventura”. Sono voci rassicuranti, che non ti mettono di fronte a un problema, ma a una bugia rassicurante e consolatoria».
Cosa ci rimane da fare, allora? «Il punto non è quanto possiamo fare, ma capire cosa il cambiamento climatico può fare per noi. Soprattutto, può metterci di fronte a un ripensamento dei nostri stili di vita. Per cambiare noi stessi».
In questo senso la montagna è lì per dirci cosa? «La montagna nel corso del Settecento e dell’Ottocento è stata una “fabbrica di uomini”. Lì si nasceva, da lì si partiva, quindi un luogo di emigrazione. Poi è diventata un luogo dell’abbandono, segnato dal ritorno della fauna selvatica e dal raddoppio della superficie boschiva. Oggi è un luogo del futuro. In montagna, proprio per ragioni tecniche, non si possono perseguire gli stessi modelli di crescita del passato. La montagna costringe a un ripensamento. È un grande laboratorio per mettere in atto nuove pratiche. Un luogo che porterà benefici in quanto richiederà di fare delle rinunce. E i grandi benefici si ottengono attraverso le rinunce».
La scalata italopakistana di sole donne, a 70 anni
Per celebrare i 70 anni dal 31 luglio 1954, quando una spedizione italiana toccò la cima del K2, la seconda vetta più alta al mondo, il Club alpino italiano ha organizzato una spedizione femminile con quattro italiane (Federica Mingolla, Silvia Loreggian, Cristina Piolini e Anna Torretta) e quattro pakistane (Samina Baig, Amina Bano, Nadeema Sahar e Samana Rahim). Obiettivo è toccare gli 8.611 metri, anche se alcuni malesseri legati all’alta quota hanno costretto Silvia Loreggian e Federica Mingolla a fermare la propria salita a campo 3 (7.300 metri).