La geoingegneria applicata al contrasto al riscaldamento globale. La comunità scientifica si è interrogata su quali misure adottare per frenare il riscaldamento globale
La geoingegneria, un insieme di tecniche progettate per modificare su larga scala i sistemi naturali della Terra, sta acquisendo una crescente attenzione
Negli ultimi decenni, il cambiamento climatico è diventato uno dei temi più pressanti del nostro tempo. Di fronte a eventi meteorologici estremi, inondazioni, siccità e ondate di calore sempre più frequenti, la comunità scientifica si è interrogata su quali misure adottare per frenare il riscaldamento globale. In questo contesto, la geoingegneria, un insieme di tecniche progettate per modificare su larga scala i sistemi naturali della Terra, sta acquisendo una crescente attenzione. Tuttavia, l’argomento resta fortemente divisivo, anche tra gli studiosi.
La geoingegneria comprende una serie di tecniche potenzialmente capaci di ridurre la temperatura terrestre e contrastare gli effetti dei gas serra, anche se con metodologie molto diverse. Tra le proposte più discusse c’è la “gestione della radiazione solare” (SRM, Solar Radiation Management), che prevede l’iniezione di biossido di zolfo nella stratosfera per riflettere parte della luce solare nello spazio. Questo approccio, simile agli effetti di un’eruzione vulcanica, potrebbe ridurre temporaneamente la temperatura globale, ma rischia di alterare i modelli climatici, come evidenziato dalla siccità che seguì l’eruzione del Monte Pinatubo nel 1991.
Altre tecniche riguardano la fertilizzazione degli oceani con ferro, per stimolare la crescita del fitoplancton che assorbe CO2, o l’aumento dell’alcalinità degli oceani tramite la diffusione di rocce polverizzate. Queste metodologie mirano a rimuovere direttamente l’anidride carbonica dall’atmosfera, ma il loro impatto sugli ecosistemi marini rimane incerto.
Fino a una decina di anni fa, l’idea di manipolare i sistemi naturali per mitigare il cambiamento climatico era accolta con scetticismo da gran parte della comunità scientifica. Molti esperti temevano le potenziali conseguenze indesiderate di tali interventi su scala globale, sottolineando l’imprevedibilità di operare su ecosistemi complessi e interconnessi. Inoltre, si sospettava che la geoingegneria potesse offrire una “scappatoia” per continuare a bruciare combustibili fossili, spostando l’attenzione dalla riduzione delle emissioni.
Negli ultimi anni, però, c’è stata un’evoluzione nel dibattito. Di fronte all’inerzia politica e all’aggravarsi della crisi climatica, un numero crescente di scienziati sostiene la necessità di sperimentare tecniche di geoingegneria. Secondo il professor Rob Jackson, della Stanford University, presidente del Global Carbon Project, “dobbiamo provare le tecniche per capirle”. Questo cambio di prospettiva deriva anche dal fatto che alcune iniziative private stanno già sperimentando tecniche di geoingegneria senza un adeguato controllo scientifico, come nel caso della start-up Make Sunsets che ha rilasciato anidride solforosa nella stratosfera nel 2023.
Il coinvolgimento di imprese private in questo campo ha accelerato lo sviluppo di progetti, spesso senza una base scientifica consolidata. Questo sta spingendo i ricercatori a invocare esperimenti controllati che consentano di verificare l’efficacia e i rischi di tali interventi. Alcuni ricercatori sono preoccupati che le promesse della geoingegneria possano essere usate come pretesto per evitare azioni concrete per ridurre le emissioni di gas serra. Lili Fuhr, esperta del Center for International Environmental Law, avverte che affidarsi a tecnologie speculative potrebbe “ritardare la vera azione sul clima”.
Nel frattempo, grandi aziende, comprese compagnie petrolifere, stanno investendo in impianti di cattura diretta dell’aria (DAC), che promettono di rimuovere la CO2 senza interferire con i sistemi naturali. Anche se non è considerata geoingegneria in senso stretto, questa tecnologia richiede enormi quantità di energia e terreno, portando a interrogarsi sulla sua sostenibilità a lungo termine.
Nonostante l’interesse crescente, la geoingegneria resta un campo minato. Le preoccupazioni principali riguardano il cosiddetto “effetto pendio scivoloso”, cioè il rischio che piccoli esperimenti aprano la strada a interventi su scala sempre più vasta, senza una piena comprensione delle conseguenze. David Keith, professore di fisica applicata e di politica pubblica all’Università di Harvard, respinge quest’argomentazione, sostenendo che l’etica della ricerca imponga di esplorare tutte le opzioni, ma molti ambientalisti restano scettici.
Alcune tecniche, come l’SRM, possono modificare i modelli di precipitazione in modo imprevedibile, danneggiando le regioni più vulnerabili. Se un Paese decidesse di raffreddare la propria regione, chi dovrebbe pagare per gli effetti negativi che potrebbero verificarsi altrove? Questa è una delle questioni centrali sollevate da Jackson, che teme che l’applicazione di queste tecniche possa accentuare le disuguaglianze globali.
Le prospettive per la geoingegneria restano incerte. Il rapporto del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, che ha evidenziato l’impossibilità di contenere il riscaldamento globale a 1,5°C senza la rimozione del carbonio, ha spinto molti scienziati a rivalutare le tecniche di geoingegneria come strumenti da non escludere a priori. Tuttavia, esperimenti su larga scala non sono ancora stati realizzati, e i dibattiti etici, politici e ambientali sono ancora in corso.
Nel frattempo, i paesi in via di sviluppo, che rischiano di essere i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, potrebbero vedere nella geoingegneria una soluzione di ultima istanza. Secondo Ken Caldeira, pioniere del concetto di gestione della radiazione solare, l’SRM è “l’unico modo per iniziare a raffreddare la Terra entro pochi anni”. Tuttavia, resta da vedere se queste tecnologie verranno mai implementate su larga scala e se potranno davvero offrire una risposta efficace e sicura alla crisi climatica.