L'affido familiare delle persone con disagio psichico: cos'è e come funziona
INCHIESTA. Si chiama Iesa, che vuol dire “Inserimento etero familiare supportato per adulti” con problemi di salute mentale. Una pratica, questa, che solo negli ultimi anni comincia a diffondersi anche nel nostro Paese. Ma che ha origini molto antiche
BOLOGNA - Si chiama Iesa e l’acronimo, una volta sciolto, risulta ancora più misterioso: inserimento etero famigliare supportato per adulti. Detto in parole più chiare, il progetto prevede un affido di tipo familiare rivolto a persone che hanno problemi di salute mentale. Una pratica, questa, che solo negli ultimi anni comincia a diffondersi anche nel nostro Paese e che viene illustrata, attraverso le storie e gli incontri con operatori e utenti, da Nicola Rabbi su SuperAbile Inail . Per capire come funziona bisogna partire dai tre soggetti che, interagendo tra loro, rendono possibile l’affidamento. Occorre innanzitutto avere delle famiglie che abbiano una motivazione all’accoglienza, che siano al loro interno equilibrate e serene e che abbiano anche gli spazi e il tempo necessari per svolgere bene questo impegno, che comporta una serie di responsabilità, come mantenere l’ospite, facilitarlo nelle relazioni sociali, avere un buon rapporto con la famiglia di origine e collaborare con l’équipe medica che si occupa del caso. Le persone da adottare, da parte loro devono, invece, essere già seguite da un Dipartimento di salute mentale, avere una propria autonomia per le funzioni elementari, non essere tossicodipendenti, cleptomani o manifestare episodi di aggressività. Gli ospiti hanno un ruolo attivo nella famiglia, collaborando nelle faccende domestiche. Il terzo elemento fondamentale dell’affido è l’Asl, che ha il dovere di dare un sostegno alle famiglie ospitanti e agli ospiti. Deve altresì erogare un contributo mensile, che dipende dall’impegno assunto e garantire la copertura assicurativa.
Stiamo parlando di un affido e, come per i minori, i tempi sono limitati: dipendono dalle famiglie, dagli utenti e anche del tipo di progetto che l’Azienda sanitaria locale ha voluto fare. In questo modo le persone possono essere ospitate solo in alcuni momenti della settimana, oppure risiedere come un membro effettivo della stessa. Tranne in rari casi, però, l’affido prima o poi finisce.
A volte a questi attori se ne può aggiungere un altro, come nel caso dell’associazione modenese Rosa bianca che si pone come facilitatore di questo processo, soprattutto in termini di sensibilizzazione.
In Italia l’accoglienza da parte di una famiglia esterna, anche se prevista dalla riforma psichiatrica, non è mai stata largamente praticata, con il risultato che in Paesi dove, a differenza del nostro, i manicomi non sono stati chiusi, vi sono più famiglie accoglienti. Esperienze simili, comunque, da noi esistono dal 2008, a partire da Torino per diffondersi poi a Bologna, Modena, Treviso, Firenze, Oristano, Caserta e in Puglia. In ciascuna di queste località il progetta Iesa può avere delle differenze in termini di durata dell’affido, contributo economico ed équipe di sostegno.
Il modello che ispira la pratica dell’accoglienza in famiglia di persone con problemi psichiatrici ha un’origine precisa e molto antica. La storia risale a una leggenda che si è diffusa dal XIII secolo nell’odierno Belgio e si rifà a una vicenda ancora più antica, svoltasi nel VII secolo.
Si narra che Dinfna fosse una principessa irlandese cristiana il cui padre, re Damon, fosse impazzito a causa della morte dell’amata moglie. Per colmare il vuoto causato dalla perdita, Damon voleva sposare la figlia che, per evitare l’incesto, fuggì con il suo confessore in Belgio, precisamente nell’attuale città di Gheel. Ma qui il padre la trovò e, di fronte al suo rifiuto, la decapitò.
Dopo questo fatto, secondo la leggenda, numerose persone con problemi di salute mentale ottennero una miracolosa guarigione da Dinfna che divenne, con il passare del tempo, la santa protettrice di chi ha questo tipo di problemi.
La sua fama si diffuse e un numero sempre maggiore di malati cominciò ad affluire nella cittadina belga. A questo punto, le autorità dovettero istituire una struttura psichiatrica, che però era insufficiente a far fronte a tutte le richieste. Così, si chiese agli abitanti di ospitare un malato in famiglia. Al tempo questa soluzione era una novità e un’anticipazione di quella che poi sarebbe stata l’inclusione delle persone con problemi di salute mentale nella società. Ancora oggi Gheel, che è una città di 70mila abitanti, porta avanti questa tradizione e attualmente circa 200 famiglie danno ospitalità a chi soffre di disturbi psichici.