"Io capo scout, oltre le barriere"
Emma Manghi ha 22 anni ed è entrata nel Branco quando ne aveva otto. A 14 anni le è stata diagnosticata la sindrome di Elhers-Danlos: si muove per lo più in sedia a ruote, ma ha capito (e dimostrato) che lo scoutismo non ha e non deve avere barriere
"Sorridono e cantano anche nelle difficoltà": è il motto degli scout, che Emma ha fatto completamente suo. Oggi ha 22 anni, studia a Bologna per diventare educatrice e vive da sola da quando ha iniziato l’università, perché "amo la mia famiglia, ma ho bisogno dei miei spazi". Sa quello che vuole Emma Manghi, ma soprattutto sa come ottenerlo: tenace, anzi cocciuta, come si definisce lei, che a 14 anni si è ritrovata su una sedia a ruote per una malattia rara che rende fragili tutti i suoi legamenti, procurandole frequenti fratture e una debolezza di tutti gli arti. Nata e cresciuta a Parma, vive a Bologna da due anni e mezzo, nello studentato “Morgagni”, dove "l’accessibilità è completa e posso godermi la mia autonomia, sapendo di poter contare su un ambiente adatto alle mie esigenze e su una socialità sicura che, anche in questi difficili tempi di pandemia, ci salva dall’isolamento".
Qual è il nome della sua malattia?
È una malattia genetica rara, di cui si sa pochissimo: la sindrome di Elhers-Danlos, che consiste in un difetto del collagene. Nello specifico, ho un’ipermobilità legamentosa, ovvero tutte le ossa instabili, perché i legamenti non tengono: sono soggetta quindi a lussazioni frequenti, faccio fatica a camminare, ho molta instabilità soprattutto nelle gambe e, a volte, anche alle spalle. Non sono nata così, anzi fino a 14 anni ero una sportiva. Poi in terza media mi sono rotta un ginocchio: mi hanno operato per ricostruirlo, ma il recupero tardava. Di qui gli accertamenti, visite su visite e alla fine la diagnosi, ma per esclusione, perché è davvero una malattia poco conosciuta. Per questo è difficile far capire la mia disabilità: cammino ma mi stanco subito, dipende dalle giornate, e poi ho altri problemi, più o meno grandi, che nell’insieme sono molto limitanti. Lo scoutismo è un po’ la mia rivincita, non solo per me ma per tutte le persone che hanno un limite.
Allora parliamo dello scoutismo: che posto occupa nella sua vita?
Un posto fondamentale. Ho iniziato il percorso scout quando avevo otto anni: sono stata prima nei lupetti, poi negli esploratori. L’incidente con il ginocchio è avvenuto quando ero in Reparto: sono stata sei mesi a casa ma poi ho voluto ricominciare. E credevo fermamente di poterlo fare. Nel pensiero comune, per fare scoutismo occorre essere in forze, sani e prestanti fisicamente. Ma lo scoutismo da 100 anni porta avanti messaggi d’integrazione e inclusione e la forza del metodo è nella sua adattabilità e flessibilità. Io sentivo quanto fosse importante per me lo scoutismo, ma ho avuto paura che fosse incompatibile con miei problemi: gli esploratori fanno tante attività che richiedono effettivamente una competenza fisica. Penso alle camminate, alle costruzioni, al fuoco, al campeggio. Non era facile per me partecipare, così come non era facile far capire che problema avessi: di fatto, sembrava solo un problema al ginocchio. Mi rendo conto che per i miei capi la sfida fosse grande: io ero cocciuta, non volevo scendere a compromessi, volevo fare tutto, dalla camminata in montagna al fuoco. E presto ho capito che era possibile farlo.
Come lo ha scoperto?
Durante un evento internazionale a cui ho preso parte: un campo europeo, che si svolgeva in Francia, per il quale mi sono candidata e sono stata selezionata. Avevo 17 anni, non ero sicura di poter partecipare, ma poi ho pensato che le mie competenze tecniche avrebbero sopperito alle problematiche fisiche. Così ho deciso di partire: è stato bellissimo e folle. Era un campo di due settimane, tra Lione e Parigi. Era il periodo dell’attacco terroristico nella capitale, arrivammo con il pullman scortato dall’esercito e la mia carrozzina faceva impazzire i metal detector. Al campo ero l’unica in sedia a ruote, ma organizzarono tutto in un attimo: spostarono il mio gruppo in un luogo più accessibile, mi misero a disposizione servizi in cemento agibili, crearono un sistema di passerelle per permettermi di arrivare dappertutto. Quando sono tornata a casa, ho cambiato gruppo scout e mi sono rimboccata le maniche. Il mio obiettivo, da quel momento, è stato quello di formare ragazzi capaci di essere aperti e accoglienti. Il mio sogno è fare in modo che i capi scout di domani non si fermino davanti a una sedia a ruote, ma vivano le differenze con normalità.
Rendere accessibile un campo scout quindi è possibile?
Sono stata capo degli esploratori per tre anni, costruendo sempre campi accessibili. Certo non è immediato, bisogna lavorarci. Ma voglio sottolineare che non abbiamo dovuto stravolgere nulla: abbiamo solo adattato quello che il metodo offre. Siamo abituati a costruire le cucine e i tavoli in un certo modo, ma se è necessario possiamo rialzarli, in maniera che la sedia a ruote possa avvicinarsi in sicurezza. È chiaro che serve una formazione, ma per noi capi la formazione è una cosa seria e indispensabile. Con poche accortezze, riusciamo a rendere tutto accessibile: questo è utile per me, ma lo è stato anche per una ragazza che si era rotta un tendine a pallavolo e pensava per questo di non venire al campo estivo. Le ho detto: 'Perché mai? Le stampelle non saranno un problema'. Un’altra 'invenzione' fondamentale, nel mio caso, è stata la tendina per la sedia a ruote: lasciarla fuori, di notte, significherebbe distruggerla: così porto con me una piccola tenda che uso praticamente come garage. Essenziale è poi la sicurezza: io non ho mai usato i pantaloncini corti, perché le mie gambe sono troppo esposte. Progettando cucine accessibili, riesco a gestire il fuoco e a occuparmi anche dei pasti. Perché io non voglio rinunciare a niente. E poi, fondamentali, le passerelle, che si costruiscono facilmente e risolvono un problema serio come quello del fango, che al campo non manca mai. Dormire in tenda, invece, non è un grande problema: basta un materassino un po’ più alto, che oggi si trova in commercio senza difficoltà e a costi accessibili".
Almeno la pandemia è riuscita a fermarla?
No, perché mai? Abbiamo riadattato tutte le nostre attività, attenendoci ai protocolli. E stiamo già progettando il campo: con le dovute limitazioni, saremo presto pronti a partire. Sempre sorridendo e cantando, anche nelle difficoltà.
(L’intervista è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di maggio, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)
Chiara Ludovisi