Inclusività non è solo una parola. Alcune riflessioni dopo i recenti casi di cronaca

La scuola è una grande opportunità per affrontare le tante solitudini del nostro mondo contemporaneo e che non risparmiano i più giovani

Inclusività non è solo una parola. Alcune riflessioni dopo i recenti casi di cronaca

Al momento del rientro nelle aule scolastiche potremmo farci una domanda non così scontata: cosa significa “scuola inclusiva”?
E’ un mantra di questi anni e si potrebbe dire che indica la volontà dell’istituzione scolastica di accogliere tutti, di creare un ambiente favorevole alle relazioni, al rispetto delle diversità, ai ritmi di crescita e di apprendimento di ciascuno.
C’è un aspetto, in questo orizzonte di “inclusività”, che pare particolarmente provocante, anche alla luce dei terribili fatti di cronaca avvenuti in questo periodo di fine estate: su tutti l’uccisione “senza movente” di Sharon Verzeni, nella Bergamasca e la tragica strage familiare perpetrata da un adolescente a Paderno Dugnano.
In entrambi i casi, naturalmente molto diversi tra loro, sembra di cogliere un elemento comune, che potremmo indicare – forse in modo inesatto, ma vale la pena di provare – come l’emergere della solitudine, l’isolamento – con modalità diverse e motivazioni complesse che non tocca noi indagare – dei soggetti protagonisti rispetto agli altri e al mondo che li circonda.
L’omicida del bergamasco sembra aver seguito un suo personale disegno, una pulsione, un impulso omicida coltivato e maturato nella solitudine della sua interiorità. Ha coltivato dentro se stesso il progetto di uccidere, con una leggerezza – sempre così appare dalle cronache – spaventosa e inspiegabile.
Anche il ragazzo di Paderno ha dato forma a un incubo cresciuto dentro di sé, a un malessere che ha sentito svilupparsi senza poterne prendere le distanze, esploso con una brutalità impensabile e agghiacciante.
Solitudine, isolamento in se stessi, incapacità/impossibilità di uscire dal proprio mondo interiore popolato da quelli che Gaber avrebbe definito “i mostri che abbiamo dentro”.
Lasciamo agli esperti e ai giudici il loro lavoro di analisi e ricostruzione di fatti e personalità, ma sul tema della solitudine possiamo provare a richiamare l’immagine proposta all’inizio della “scuola inclusiva” e la questione dell’educazione. Perché proprio la scuola, che adesso torna ad essere popolata da bambini e ragazzi, è una grande opportunità per affrontare le tante solitudini del nostro mondo contemporaneo e che non risparmiano i più giovani. Anzi.
La pratica scolastica, l’interazione quotidiana tra pari, così come tra giovani e adulti, in un ambiente che dovrebbe essere in qualche modo protetto e soprattutto guidato da una intenzionalità educativa – l’attenzione alla crescita armonica e complessiva di ciascuno – è un antidoto all’isolamento e alla solitudine. Incontrarsi e scontrarsi ogni mattina, misurarsi con le diversità, con i successi e i fallimenti, aiuta a uscire da se stessi e dal proprio mondo isolato, talvolta iperprotetto dalle famiglie, prendendone le distanze. Non è una garanzia di “benessere”, certo, ma un aiuto sì.
Si discute da anni, ad esempio, sui rischi di autoreferenzialità e isolamento che porta con sé l’uso smodato di smartphone e internet (educazione digitale?) anche se sarebbe banale cercare solo qui le cause di tanti malesseri dei più giovani (e degli adulti). Tuttavia, anche in questo caso l’interazione “fisica” che la scuola propone, la vicinanza e lo scambio, lo scontro con gli altri: tutto questo – guidato in modo intenzionale, si badi bene – diventa opportunità.
Panacea di ogni male? No, certo. “Il male cammina con noi”, scriveva nei giorni scorsi un noto regista. Anche a scuola, dove però si può e si deve cercare qualche antidoto.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir