Il Sanremo della noia e della playlist
Il panorama musicale della 74ª edizione del Festival della canzone italiana ha rivelato una netta preferenza per brani leggeri, con scarse incursioni nel territorio dell’impegno sociale. Spiccano pochi accenni di neo-femminismo e qualche menzione sull’immigrazione e la pace, mentre il rock si percepisce solo marginalmente. Non si può negare una certa di delusione. L'energia e l’innovazione che ci si sarebbe potuti aspettare non emergono, anzi sono confluite in un livello di proposta che è apparsa abbastanza convenzionale e uniforme
Non è affatto veritiero affermare che il Festival di Sanremo rifletta fedelmente la realtà del Paese, poiché, come accade spesso agli specchi, l’immagine che restituisce risulta sempre distorta almeno in parte. Eppure, nonostante ciò, da questo evento tanto seguito e simbolicamente rilevante, giungono importanti segnali per interpretare lo stato d’animo e la situazione della nostra società. Questi segnali non provengono solo dalle singole esibizioni, ma anche, e forse soprattutto, dall’insieme dell’evento di Sanremo, per ciò che comunica esplicitamente e per ciò che, invece, rimane implicito o non viene detto. In tal senso, il panorama musicale della 74ª edizione del Festival della canzone italiana ha rivelato una netta preferenza per brani leggeri, con scarse incursioni nel territorio dell’impegno sociale.
Spiccano pochi accenni di neo-femminismo e qualche menzione sull’immigrazione e la pace, mentre il rock si percepisce solo marginalmente.
La vittoria dei Maneskin sembra già un ricordo lontano, mentre a trionfare sono le sonorità urban, pop, trap e rap, accompagnate dalle trame sempre affascinanti delle storie d’amore, ma il più delle volte dai contorni tragici. Non si può negare una sensazione di delusione. L’energia e l’innovazione che ci si sarebbe potuti aspettare non emergono, anzi sono confluite in un livello di proposta che è apparsa abbastanza convenzionale e uniforme.
Non è mancata, poi, l’annosa questione sul sistema del voto con il suo carico di polemiche. Sanremo vive inevitabilmente di una doppia natura: democratica e demagogica. La natura democratica risiede nell’ampio coinvolgimento del pubblico e nell’opportunità offerta a numerosi artisti di esibirsi su un palcoscenico di grande risonanza internazionale (la playlist dell’Ariston su Spotify è la più ascoltata al mondo).
D’altra parte, la natura demagogica del festival emerge dal suo utilizzo spesso mirato a fini di intrattenimento di massa e di manipolazione emotiva del pubblico, privilegiando l’aspetto commerciale e promozionale rispetto a quello artistico e culturale. Inoltre, il potere delle case discografiche e dei media nell’influenzare il risultato finale del concorso può essere interpretato come un elemento che condiziona il processo decisionale a vantaggio di interessi economici piuttosto che artistici.
E qui arriviamo al nocciolo della questione: le scelte musicali. Esaminandole da vicino, si rivelano discutibili sia in termini di quantità che di qualità. Ci si chiede quale sia il senso di allargare la competizione a 30 canzoni se poi non si ha la volontà di diversificare i generi musicali, con un’offerta dominata quasi esclusivamente da sonorità urban, ritmi in quattro, ballate, rap.
Inoltre, è preoccupante notare che almeno un terzo delle 30 canzoni in gara presenta somiglianze evidenti con brani preesistenti, sollevando dubbi sulla creatività e l’originalità delle proposte presentate. Ultimo, ma non ultimo, un gruppo ristretto di 13 autori consolidati ha messo nero su bianco da due a quattro canzoni ciascuno, risultando in ben 16 delle 30 tracce in competizione con la loro firma. Un’oligarchia compositiva che solleva interrogativi sulla diversità e la genuinità delle proposte musicali presentate al festival.
Cosa non resta, dunque, di questo Festival? Indubbiamente i fischi a Geolier. Fischiare un vincitore (serata cover) è sempre deprecabile, ma diventa ancor più triste quando il bersaglio è un giovane di 23 anni che, al di fuori dell’Ariston, gode di grande popolarità e successo nelle classifiche musicali. Questi fischi, poi, sono stati accompagnati da un’ondata di commenti e sentimenti negativi sui social media, con sfumature anti-meridionali, un aspetto della vicenda che avremmo preferito non vedere.
Cosa rimane, invece?
Resta una vasta gamma di canzoni da metabolizzare, un podio giovane e variegato (Geolier secondo e Annalisa terza), Mahmood che nell’insieme resta il più international pop degli artisti italiani, il coraggio di Dargen D’Amico, l’”italiano vero” di Gahli e l’istantanea di Angelina Mango che, con un sorriso aperto, inciampa nel vestito sul finale della sua esibizione, scivola dalle scale e chiede scusa a noi (“Sono un po’ stanca”), che di questa settimana ci portiamo dietro solo il fatto di aver tirato un po’ più tardi del solito. E lei, nata per essere esattamente dov’è.
Doriano Vincenzo De Luca