I tagli di UniCredit fanno male ma non sorprendono
Solo negli ultimi mesi UniCredit ha venduto Fineco, una importante quota di Mediobanca, una solida partecipazione in Turchia. Il gruppo diventa più piccolo, meno presente, con meno dipendenti. Ma quello sembra l’ultimo dei problemi. UniCredit sa di non essere sola: in Italia negli ultimi dieci anni, utilizzando un Fondo esuberi di categoria, sono spariti 64 mila posti, il 25,5% degli sportelli. In venti anni ben 555 piccoli e medi Comuni hanno perso l’unica presenza bancaria
Ottomila posti di lavoro in meno, di cui quasi seimila in Italia, non sono pochi. Il taglio avviene in una banca che svetta sull’intera Milano con il suo moderno grattacielo, che è stata la più internazionale per espansione e per molti anni la più innovativa mentre la gemella/rivale Comit finiva inglobata in quella che diventerà Intesa Sanpaolo. Quella accreditata per un grande matrimonio con altre banche europee. L’annuncio di un ridimensionamento consistente dei dipendenti UniCredit, in parallelo con la riduzione di circa 500 filiali (450 in Italia), è contrastato dai sindacati e da parte del mondo politico che vi leggono una nuova falla occupazionale. Al primo manager Jean Pierre Mustier e al Consiglio di amministrazione viene chiesto di tornare indietro e correggere il piano 2020-2023.
Il caso UniCredit non può essere interpretato solo con la scorciatoia “banca in crisi manda a casa i lavoratori”.
C’è quella, c’è altro. La lettura è più complessa: UniCredit non è più in crisi di quanto lo fosse nel 2017 quando lanciò un pesantissimo aumento di capitale da 13 miliardi per cancellare molti crediti diventati inesigibili. Il titolo (ma attenzione, il solo valore dell’azione può essere fuorviante perché sottoposto a un insieme di variabili) era sceso anche a 9 euro, in queste settimane è sopra i 12 euro.
E’ forse più corretto indagare perché le banche italiane ed estere si siano convinte di poter fare a meno di molti loro dipendenti, scaricando sui costi del personale un’innovazione tecnologica che è arrivata potente per sostituire molte attività fondate anche sul rapporto professionale e personale. L’innovazione non ha portato solo la banca sullo smartphone e le mini-filiali senza cassieri. E’ arrivata la concorrenza spersonalizzata delle grandi piattaforme non bancarie (Google offrirà conti correnti, Amazon e Uber sono sulla stessa strada). Mentre la paura di crisi bancarie che possano riflettersi sugli Stati ha innalzato il patrimonio di protezione che gli istituti tradizionali devono mantenere per far fronte agli scenari più negativi. Non a caso ci sono gli stress test, simulazioni per capire quanto sarebbero in grado di reggere.
Troppi errori del passato nel concedere credito hanno costretto le banche a cancellare o sminuire il valore dei prestiti, quello che a bilancio sembrava 100 non era poi esigibile ed è diventato 30. I conti ne hanno risentito con perdite e aumenti di capitale obbligati. Ora l’economia è asfittica, gli istituti faticano a prestare denaro.
Investire in azioni di una banca è poco redditizio. Non è facile trovare soci. Le grandi banche “nazionali” sono sempre internazionali per azionariato. Prendiamo proprio l’italiana UniCredit. Il 65% del capitale è posseduto da investitori istituzionali, cioè dei soggetti che gestiscono grandi masse di denaro su delega di altri. Sono fondi di investimento e fondi pensione (accantonamento di denaro da parte di lavoratori, casse professionali, comunità di diversa estrazione, certamente anche soggetti facoltosi) che in una logica di lungo periodo vogliono garantire la rivalutazione dei soldi loro affidati. Operano investitori istituzionali pazienti (ad esempio i fondi sovrani, cioè di un altro Stato) e altri che pretendono “tutto e subito”. Con stile moderato o impaziente, tutti vogliono comunque dividendi e titolo solido in Borsa. Lo stesso avviene per le Fondazioni ex bancarie (circa il 5%) che conferirono le loro banche locali nel progetto di trasformazione del Credit in un grande UniCredit europeo. Anche loro devono utilizzare al meglio il patrimonio per sostenere le attività culturali, sociali e di territorio. Lo stesso vogliono i piccoli azionisti che sono calati fino al 17% del capitale.
Il 51% del capitale è in mano a soggetti Usa, il 25% è nel Regno Unito, solo il 4% in Italia e il 18% nel resto d’Europa. Tanti nel mondo stanno seguendo gli sviluppi.
Tenere buoni gli azionisti vuol dire per i manager raccontare periodicamente una storia virtuosa dove la banca produrrà tanti utili, ne distribuirà il 40-50% in dividendi ai soci cui ricomprerà azioni (buyback) riducendo la parte destinata alla crescita. E se non verrà raggiunto il risultato annuale? Si venderanno i pezzi più richiesti. Solo negli ultimi mesi UniCredit ha venduto Fineco, una importante quota di Mediobanca, una solida partecipazione in Turchia. Il gruppo diventa più piccolo, meno presente, con meno dipendenti. Ma quello sembra l’ultimo dei problemi. UniCredit sa di non essere sola: in Italia negli ultimi dieci anni, utilizzando un Fondo esuberi di categoria, sono spariti 64 mila posti, il 25,5% degli sportelli. In venti anni ben 555 piccoli e medi Comuni hanno perso l’unica presenza bancaria.