Hanno aiutato i connazionali in Italia, quattro eritrei a processo: “Reato di solidarietà”
La storia inizia dallo sgombero di Ponte Mammolo. Per l’accusa esisteva una cellula romana legata a una rete internazionale di trafficanti. Ma tra traduzioni inesatte, scambi di persona e indizi non chiari le accuse stanno cadendo pezzo per pezzo. Ora si apre il processo di appello. “Strategia politica per fermare l’aiuto ai migranti”
“Agaish” in tigrino vuol dire “ospite”, “messaggero di Dio”, “colui che va accolto”. Con questo termine è stata chiamata un’inchiesta sul traffico internazionale di esseri umani, ma nei faldoni della procura quella parola ha il significato diverso di “cliente”. L’errore nasce dalla traduzione di un’intercettazione che ha portato all’arresto (e al processo) di sei cittadini eritrei, accusati di far parte di una rete che ha favorito negli anni l’ingresso illegale, in Italia e in Europa, dei migranti. Gli imputati, supportati da un team di avvocate (Raffaella Flore, Ludovica Formoso, Tatiana Montella, Giuseppina Massaiu), si difendono e parlano dell’ennesimo processo alla solidarietà, rivendicando di aver aiutato parenti e connazionali, senza alcuno scopo di lucro. Tra sfumature linguistiche di significato, scambi di persona e indizi fallaci, alcune delle accuse sono già cadute. Ma il processo arriva oggi all’ultimo tassello: in appello si dovrà definire se ci sia stato reato o se è solo un errore giudiziario.
Da Ponte Mammolo a Piazza Indipendenza: la presunta “cellula romana”
La storia inizia nel 2015, con lo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo, un insediamento informale in cui vivevano persone provenienti da diversi paesi: eritrei, ucraini, sudamericani. Il borghetto, che sorgeva a via delle Messi d’Oro, era salito agli onori delle cronache, qualche mese prima, per una visita inaspettata di Papa Francesco. Negli anni, quel borgo fatto di baracche, noto come “Comunità della Pace”, era diventato la casa di tanti, che nell’impossibilità di pagare un affitto, si rifugiavano in una delle costruzioni in lamiera o cemento. Ma era anche un luogo di accoglienza dei tanti transitanti che passavano da Roma e lì facevano una breve sosta con l’obiettivo di raggiungere poi le altre città del nord Europa. A maggio le ruspe entrarono in azione, e in quei giorni si parlò di un’azione legata alle condizioni alloggiative. Oggi sappiamo che dietro l’operazione c’era anche l’inchiesta sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che metteva nel mirino alcuni luoghi simbolo dell’accoglienza romana, tra cui Ponte Mammolo.
Secondo l’accusa esisteva infatti una rete internazionale, che agiva a scopo di lucro, nella quale era inserita anche una cellula romana, costituita da un’associazione ben strutturata, con compiti e ruoli definiti e una precisa catena di comando. Tra i luoghi a disposizione della rete anche il palazzo di via Curtatone, adiacente piazza Indipendenza (sgomberato nel 2017) e quello in via Collatina. Gli eritrei sono stati imputati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e di partecipazione a reato associativo. L’associazione avrebbe avuto un profilo allarmante, perché strutturata a livello internazionale e operante dell'Africa fino in Italia: dalla tratta del mare alle città europee. Inoltre, la rete avrebbe operato in base alla hawala: un sistema di scambio di denaro. A capo dell’associazione criminale ci sarebbe stato Mered Medhaine, detto il Generale, ritenuto il responsabile della strage di Lampedusa del 2013 e sotto processo in Italia. A finire in tribunale, e in carcere però non è stato lui ma Medhanie Tesfamariam Berhe, per uno scambio di persona.
Le accuse cadute pezzo per pezzo, resta solo l’aiuto solidale
I sei eritrei della presunta cellula romana al processo di primo grado sono stati assolti dal reato associativo. Per due di loro sono cadute tutte le accuse, mentre altri 4 sono ancora a giudizio solo per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Secondo il team di avvocate, che li difende, è poco chiaro perché i quattro siano ancora chiamati in giudizio, tutte le condotte sono state identiche e sovrapponibili e tutti atteggiamenti volti ad aiutare amici e parenti, gli algaish, “ospiti” non “clienti”.
Uno dei primi indagati è stato, infatti, arrestato in flagranza di reato mentre stava comprando un biglietto del pullman per il fratello e alcuni suoi amici, che volevano lasciare Roma e arrivare in Germania. Altri hanno offerto ospitalità per qualche giorno, un pasto caldo, un aiuto per gli spostamenti a connazionali appena sbarcati nel nostro paese. “Anche quando si fa riferimento al pagamento di servizi le somme complessive per ogni soggetto non sembrano superare poche decine o centinaia di euro. I prospetti delle somme versate tramite postepay o tramite sistemi alternativi, ma sempre legali, e diversi dalla hawala, corrispondono ad un corrispettivo sostanzialmente conforme al prezzo del biglietto o dell’attività svolta. Dunque non c’è quella sperequazione che fonda la logica di repressione dello sfruttamento o approfittamento - spiegano le avvocate -. Le singole somme appaiono del resto poco più che irrisorie”. In un’ intercettazione emerge, per esempio, la consegna di 18 euro per un biglietto di treno o di 100 euro “per la migrante, i suoi vestiti e le altre cose”.
“L’inchiesta ha portato per ora a 18 mesi di carcerazione preventiva per gli imputati - spiega Tatiana Montella, del team difensivo -. In questi anni le accuse sono cadute pezzo per pezzo: è ormai chiaro che non esisteva alcuna cellula romana legata a una rete internazionale. Quindi ora sono imputate le singole condotte di aiuto, che venivano attivate quando arrivava un parente, un cugino, un fratello. Non è stato dimostrato nessuno scambio economico. Un ragazzo è stato contattato da un amico d’infanzia per aiutare la figlia, appena sbarcata in Italia. Era solo un gesto di amicizia e solidarietà. Sono condotte molto tipiche tra comunità, che però spesso finiscono sotto accusa. La storia che vede coinvolti gli eritrei è molto simile a quanto successo di recente a Trieste ad Andrea Franchi, o alle ong, da ultima Mediterranea. Vengono accusate di reati di solidarietà”.
Oggi, 10 marzo, inizia il processo in Corte di Assise d’ appello. “Credo che esista una questione aperta in Italia in cui, attraverso l'utilizzo di alcuni reati, vengano imputati una serie di soggetti e messe sotto inchiesta una serie di persone, che aiutano i migranti - aggiunge Montella- Tutto questo è finalizzato a rompere i legami di solidarietà e per bloccare la libertà di movimento dei migranti. C’è una ragione politica. Non è un caso se negli ultimi anni abbiamo assistito spesso a episodi come questi”. Se i quattro imputati venissero condannati in via definitiva dovrebbero scontare tutti il resto della condanna in carcere: rischiano da due a quattro anni. “Esiste ormai una retorica del trafficante, ma c’è un confine labile tra ciò che è illegale e ciò che è semplice aiuto. Allargando così tanto le maglie del reato di favoreggiamento si coinvolgono soggetti diversi. Questo è un male, anche perché così non si colpiscono mai i reali trafficanti ma le reti di solidarietà. Nel processo, inoltre, parliamo di eritrei che hanno diritto allo status di rifugiato - conclude l’avvocata -. Sarebbe stato più sensato creare canali legali e sicuri per far arrivare le persone. Quello è il modo di intervenire sulle reti dei trafficanti, non mandando a processo chi aiuta”.