G7 sull’Afghanistan: Occidente al bivio. Ma non si può scappare da Kabul
I sette cosiddetti "grandi" si ritrovano per discutere come abbandonare il Paese mediorientale al suo destino, mettendo in salvo i propri diplomatici e magari qualche migliaia di donne e bambini. Ma quale sarà il futuro dell'Afghanistan? Può essere lasciato in mano ai talebani, dopo vent'anni di presenza Usa e Nato?
Trentotto milioni. È il numero degli abitanti dell’Afghanistan. Cifra magari approssimativa (gli uffici anagrafe sono solo lo specchio di un Paese fuori controllo sotto il profilo politico, sociale, istituzionale, militare) ma pur sempre ingente. Domanda? Quanti potranno essere gli afghani che, in pericolo per il ritorno al potere dei talebani, saranno messi in salvo dall’Occidente?
Le scene dell’aeroporto di Kabul danno l’idea di un disastro annunciato. Inoltre, c’è il resto del Paese: altre città, altre regioni dove la popolazione è in preda al panico sotto la minaccia delle ritorsioni e delle vendette talebane.
Dunque di cosa discuteranno i sette “grandi” (aggettivo difficile da digerire in questi giorni) ritrovandosi oggi al G7? Probabilmente parleranno delle operazioni per mettere in salvo il proprio personale, diplomatico, civile e militare presente in Afghanistan.
Forse proveranno a mettere in pace la coscienza occidentale ribadendo l’impegno a salvare alcune migliaia di donne e bambini.
E il resto della popolazione afghana, che dopo 20 anni di militarizzazione fallita da parte di Usa e Nato, si ritrova con in mano nulla? Chi penserà al futuro di un popolo martoriato dalla storia, diviso al suo interno, che trova in “concittadini” spietati (i talebani sono pur sempre afghani) i propri carnefici?
Circolano verità confermate in questi giorni da molte voci autorevoli. L’arrivo degli eserciti occidentali in Afghanistan era seguito all’attentato alle Torri Gemelle: in quel Paese si sarebbero scovati e sconfitti i responsabili del terrorismo internazionale. Ma la storia racconta poi un altro epilogo e mette in luce i gravi errori di valutazione dell’allora amministrazione Usa e di quelle successive, con l’avallo e la complicità europea. Nel frattempo 20 anni di truppe e di armi a stelle e strisce ed europee non hanno favorito l’instaurarsi a Kabul di un parlamento e di un governo davvero democratici e neppure di un esercito che sapesse rispondere colpo su colpo all’avanzata talebana.Talebani che nel frattempo si sono arricchiti di armi e di soldi provenienti da giganteschi traffici di droga.Il presidente americano Joe Biden si trova ora nella scomoda posizione di dover argomentare il ritiro delle truppe statunitensi, decise dal suo ingombrante predecessore Trump, affermando ciò che non andrebbe affermato: “Sarà la storia a dimostrare che la decisione di andar via è stata quella giusta”. Forse per gli interessi americani, ma non per il popolo afghano, non per la stabilità e la pace regionale, non per l’onore dell’Occidente.
Anche l’Unione europea si trova nei guai. Divisa al suo interno, fatica a trovare una voce comune per dire ciò che andrebbe detto: dall’Afghanistan non ci si ritira, non si lasciano milioni di esseri umani in balìa del demone talebano, non si lascia l’Afghanistan nelle spire d’influenza cinese o russa, pakistana o indiana.
Uguale silenzio si ode dai Paesi arabi e da altri “vicini di casa” mediorientali, salvo ascoltare i moniti e le promesse di Erdogan, che di credibilità ne ha ormai poca.
Sì, l’unico modo, al momento, per evitare un’altra strage degli innocenti è garantire una presenza militare internazionale in Afghanistan, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Perché se è vero – con don Primo Mazzolari – il monito assoluto “Tu non uccidere”, è vera anche la sua estensione: “Tu non lasciar uccidere”.Ovviamente l’Afghanistan avrà poi bisogno di altro (che finora non ha avuto dalla comunità internazionale):
tanto per cominciare un sostegno disinteressato alla costruzione di uno Stato democratico, con il rafforzamento delle istituzioni politiche; la promozione e tutela dei diritti umani, delle libertà individuali, dei diritti dei bambini e delle donne, della libertà religiosa; investimenti per l’istruzione giovanile (ciò che manca è una nuova generazione di afghani cresciuti nei valori democratici); la cooperazione allo sviluppo; fondi freschi per ammodernare la struttura dello Stato e la pubblica amministrazione; la collaborazione sul piano economico e commerciale. Ma sono solo i primi passi per far dimenticare un passato e un presente carichi di insuccessi e di vergogna.