G7 e Conferenza in Svizzera: le formalizzazioni del mondo diviso
Due vetrine e nessuna svolta, come previsto.
Il G7 in Puglia e la Conferenza celebrata in Svizzera hanno appena certificato la faglia divisiva dell’ordine globale. Due vetrine e nessuna svolta, come previsto. Eppure entrambe sono servite a confermare tale rappresentazione.
Una conferenza di pace da cui viene esclusa la parte nemica non promette granché. Anzi, la memoria ci riporta a quella di Parigi del 1919 dove, in assenza della Germania battuta, si confezionò la “pace punitiva” destinata a incubare il secondo conflitto mondiale. Per quanto allora, a dettare le condizioni, furono comprensibilmente i vincitori, in grado di pretendere la resa incondizionata.
Il documento proposto da Kiev (vigente il decreto che vieta di trattare) non è stato sottoscritto da 12 (Arabia Saudita, Armenia, Brasile, Colombia, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Libia, Messico, Santa Sede, Sud Africa, Tailandia) dei 92 partecipanti, su un totale di 195 Stati sovrani riconosciuti. Vi si parla di negoziato previo il ritiro russo e il rispristino dello status quo ante, pena lo scontro a oltranza: inefficace per la pace, ma non come referendum inteso a esibire l’isolamento di Mosca e formalizzare gli schieramenti.
Pur assente, anche Putin ha ufficializzato la sua piattaforma, per addivenire alla conclusione della guerra anziché all’armistizio: ritiro ucraino dai fronti di Donetsk, Luhanks, Kherson e Zaporizhzhia con riconoscimento dei risultati del campo; garanzie per i diritti dei russofoni soggetti a Kiev; neutralità militare dell’Ucraina, con assenza di forze Nato e di armamenti nucleari sul territorio. Il messaggio è chiaro: più ci si ostina con le armi, più il Cremlino procederà alzando la posta (si noti che ora gli oblast rivendicati sono raddoppiati).
D’altronde il versante Brics non è rimasto a guardare. Alla vigilia del G7 pugliese, la Russia, presidente di turno, ha ospitato il vertice dei ministri degli esteri del Gruppo, che da gennaio include Iran, Emirati, Egitto ed Etiopia. Sul tavolo l’adesione tailandese, il potenziamento della Nuova Banca di Sviluppo alternativa al Fmi sotto controllo occidentale e l’incremento della dedollarizzazione degli scambi. L’Arabia Saudita, altra candidata, ha annunciato di non voler rinnovare l’accordo che dal 1974 la lega al petroldollaro. Le monarchie del Golfo, Riad in testa, confermano l’opzione dei “due forni”, facendosi corteggiare da Washington e Pechino (hi-tech, automotive, nucleare, armamenti, ecc.). Ma è significativo che il principe saudita abbia declinato l’invito alla kermesse di Borgo Egnazia. Tra i big invitati, invece, oltre al Santo Padre (solo in tema Ia, censurandone le applicazioni belliche) anche il ceo di BlackRock, il colosso finanziario che ora fa incetta dei pacchetti azionari degli asset occidentali.
L’atmosfera di scintillante giovialità non si è guastata con la scaramuccia Macron-Meloni sull’assenza dell’aborto nel documento finale (di fatto presente come “diritto alla salute sessuale e riproduttiva delle donne” con rinvio al G7 di Hiroshima, che menziona l’interruzione di gravidanza tra i diritti da promuovere). Il resto dei temi: Lgbtqia+, auspici per Gaza, investimenti in Africa sullo standard del Global Gateway Ue (in cui sussumere il cd “Piano Mattei”), contrasto all’immigrazione irregolare, ecc. Di immediatamente concreto c’è il sostegno all’Ucraina “per tutto il tempo necessario”, blindando 50 mld di dollari inclusivi della confisca dei rendimenti degli asset russi (anche privati) in Europa: facendo i conti della spesa mensile di Kiev, si arriva a novembre, in coincidenza con le presidenziali Usa. Misura che però rischia di incutere insicurezza sui mercati finanziari, viepiù scoraggiando l’approdo di capitali in Ue, già aggravata dall’arretramento dell’euro sul dollaro.
Ma a dare il tono concreto della divisione globale è stato l’impegno contro la concorrenza cinese. Che si è appena tradotto nella guerra commerciale lanciata da Bruxelles: dazi fino al 38% sulle vetture elettriche (in aggiunta al 10% già applicato su tutto il settore auto) dei marchi cinesi sospettati di ricevere sussidi governativi. Si tratta del rapido allineamento alla misura varata da Washington tre settimane, ma non è detto che ciò basti a promuovere l’acquisto di marchi europei, giacché sulla produzione continentale pesano i costi delle nuove dipendenze energetiche. Diversamente, il gas russo un tempo destinato a ovest sarà tutto accaparrato da Pechino con il potenziamento della diversione del gasdotto Forza della Siberia 1, in attesa del Siberia 2, incentivato dalla militarizzazione Usa dello Stretto di Malacca, che ostacolerebbe le rotte del gnl (Gas naturale liquefatto) diretto in Cina. Il ministro dei trasporti di Berlino lamenta i danni per l’industria nazionale che acquista pezzi da est, mentre Volkswagen, Bmw e Porsche protestano, avendo in Cina una notevole fetta di mercato per le grosse cilindrate, minacciata dalle ritorsioni daziarie ventilate da Pechino. La quale rivendica che proprio gli Usa sono imputati al Wto per incentivi statali discriminatori, pur bloccando il procedimento attraverso la mancata nomina del loro membro nel collegio arbitrale.
Vero è che il protezionismo è aggirabile grazie alla moltiplicazione dell’export cinese di componenti assemblate dalle industrie emergenti del Sud globale, da cui l’Occidente acquista sempre più. Ma la sfida dipinge l’indirizzo verso fratture economiche che si uniscono alle tensioni militari. La notizia delle navi russe schierate al largo di Cuba a titolo di contrappasso dimostrativo per l’atlantizzazione ucraina porta indietro lancette della storia. Auguriamoci che gli statisti di oggi siano all’altezza di quelli di ieri, almeno per quanto concerne la consapevolezza dei rischi.
Giuseppe Casale*
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense