Don Peppe Diana. Cuoci: “Continua a camminarci accanto e a indicarci orizzonti di speranza”
La morte del sacerdote, spiega al Sir il coordinatore del Comitato che prende il nome del parroco assassinato dalla camorra, “è stata il punto di svolta. E quel sangue versato che ha macchiato di rosso la terra di Casal di Principe ha prodotto frutti, che non sono tardati ad arrivare, un poco alla volta. Quella folla, che il 19 marzo di trent’anni fa era in piazza e per le strade e poi al funerale di don Peppe il 21 marzo, è diventata un popolo con una meta: rendere libere queste comunità”
Era il 19 marzo 1994. Erano da poco passate le 7,20. Don Peppe Diana, parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, si apprestava a celebrare la messa, in chiesa c’erano già alcune donne e le suore. Ad aspettare il parroco c’era anche il suo amico Augusto di Meo per fargli gli auguri per il suo onomastico. Mentre il sacerdote si stava preparando per celebrare la messa entrò un uomo che chiese: “Chi è don Peppe?”. Don Diana gli rispose: “Sono io”. L’uomo tirò fuori una pistola e gli sparò. Così, per mano dei casalesi, morì a non ancora 36 anni don Peppe Diana. Il giorno dei funerali di don Diana, il 21 marzo 1994, mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, ebbe a dire parole profetiche: “Il 19 marzo è morto un prete ma è nato un popolo”. Infatti, a distanza di trent’anni da quell’efferato omicidio di camorra, le “terre di camorra” sono diventate le “terre di don Diana”, proprio camminando sulle sue orme. Ne abbiamo parlato con Salvatore Cuoci, coordinatore del Comitato don Peppe Diana, nato ufficialmente nel 2006, come frutto di un percorso di diversi anni, che ha coinvolto persone e organizzazioni unite dal desiderio di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo.
Com’è cambiato il vostro territorio dopo l’omicidio di don Diana?
I cambiamenti si vedono tutti. Quando quella mattina di trent’anni fa i camorristi uccisero don Peppe Diana volevano uccidere anche la speranza, perché non bastava uccidere un sacerdote nella sua chiesa, bisognava seminare anche il vento della calunnia, bisognava fare in modo che nulla più potesse crescere su questi territori, nemmeno la speranza, per l’appunto. Invece, quella morte è stata il crinale, il punto di svolta, quella scintilla che ha fatto sì che la gente iniziasse a consapevolizzare quanto stava avvenendo. E quel sangue versato che ha macchiato di rosso la terra di Casal di Principe ha prodotto frutti, che non sono tardati ad arrivare, un poco alla volta, prima con i beni confiscati, poi con i terreni confiscati che abbiamo messo a coltura, l’iniziativa del “Pacco alla camorra”, con i prodotti realizzati, poi le case e i centri sperimentali, i laboratori, la biblioteca, i seminari, i libri, film e tante altre iniziative.
Quel territorio è cambiato tantissimo perché, dopo la resistenza che è stata fatta da pezzi di Chiesa, di associazioni, di cittadini, di una parte delle istituzioni, oggi non ci resta che aspirare alla libertà. Quella folla che il 19 marzo di trent’anni fa era in piazza e per le strade e poi al funerale di don Peppe il 21 marzo, il primo giorno di primavera, è diventata un popolo con una meta: rendere libere queste comunità.
Quanto è ancora presente la camorra in quelle terre?
Siamo consapevoli che la camorra non è sradicata, la camorra e le mafie non sono sconfitte, per alcuni versi sono più forti di prima, perché hanno cambiato pelle, oggi non si spara più, ma c’è tutta quella finanza virtuale, sotterranea, che si nasconde tra la finanza legale, c’è tanta la corruzione, per cui siamo consapevoli che
il lavoro ancora da fare è tantissimo, ma indietro non si può tornare.
Dobbiamo continuare a serrare le fila, perché se noi riusciamo a fare tre passi avanti le mafie obbligatoriamente ne devono fare tre indietro, dipende da noi, dal nostro modo di stare insieme, dalla nostra coralità, soprattutto dal modo con cui continuiamo a camminare.
Come fate conoscere don Diana ai giovani?
Giriamo moltissimo per le scuole per portare le parole di vita, affrontare la questione con parole nuove, di speranza, facendo capire che possiamo riprendere in mano la nostra vita, i nostri sogni, le speranze.
Con i ragazzi parliamo in modo franco e schietto, li invitiamo a sognare ma anche a contestare, devono essere inquieti come lo era don Peppe, mettendo in risalto la bellezza, la freschezza, la gioia.
Oggi, 19 marzo, coloreremo dei tanti colori dei giovani le strade di Casal di Principe. Sono impegnati anche quattro giovani con il Servizio civile a Casa don Diana, abbiamo altri giovani che vengono a fare carcere alternativo, abbiamo un approccio con tantissime scuole, che vengono a Casal di Principe a Casa don Diana per conoscere da vicino la storia, per guardare con i loro occhi. Questo è gettare ponti di comunicazione, favorire la relazione, la cura delle persone, stare accanto ai giovani, sognare insieme con loro: questo è il nostro approccio.
Lei che ha conosciuto don Diana cosa ci può raccontare di lui?
Io ero uno di quei ragazzi dell’Azione cattolica che nel 1991 distribuiva fuori alle parrocchie il documento “Per amore del mio popolo”.
Don Peppe era un tipo schietto, forte, che non le mandava a dire,
le diceva tutte quante dritte in faccia, anche sapendo che qualche volta facevano male quelle parole, ti colpivano dal di dentro, ma era quello che lui voleva: colpirti nella coscienza, nel tuo io, perché sapeva che poi mettendoti una mano sulla spalla e parlandoti dolcemente sapeva farti ritornare alla vita, all’entusiasmo, alla freschezza che era dei giovani.
Ricordo anche un Peppe inquieto, contestatore, che non sapeva tacere, ma che sapeva parlare al cuore delle persone, un Peppe che continua ancora oggi a insegnarci e a indicarci la strada.
Don Peppe è stato una voce profetica…
Sì, eravamo alla fine degli anni Ottanta e inizi anni Novanta, quando si moriva per un sì o per un no; per uno sguardo sbagliato si veniva gambizzati perché per l’appunto c’era stata un’occhiata in più. E in un periodo così fosco lui era quella voce che si alzava nelle omelie chiara, diretta, fresca,
anche da segretario del vescovo di Aversa dell’epoca, mons. Giovanni Gazza, sapeva far sentire la sua voce, il suo grido. Questo è il Peppe che continua a piacerci e nel quale ancora crediamo.
C’era la percezione allora del rischio che don Peppe correva e voi che gli eravate vicini correvate con lui?
Non avevamo questa percezione, un po’ di paura sì. Don Peppe diceva: “Io ho il colletto, la tonaca, cosa possono farmi? Io sono un sacerdote”. E invece la camorra e la mafia hanno dimostrato che neanche ai sacerdoti la facevano passare liscia, con don Puglisi ucciso in Sicilia e don Peppe addirittura in chiesa, e neanche ai bambini, come dimostra la storia del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido. Questo significa che in quel periodo niente e nessuno poteva fermare la brutalità di queste persone. Certamente, c’era la paura, ma non pensavamo che si potesse superare questo tabu e invece l’hanno superato uccidendo don Peppe. Per questo prima ho detto che
la camorra non voleva che crescesse più la speranza e invece da quella morte sono nati frutti copiosi, forti, che oggi raccogliamo con tanto amore, ma sappiamo che altri frutti devono nascere, a noi piace vederne le forme, gustarne i sapori, immaginarne i colori e vogliamo continuare in questa continua ricerca.
Cosa può dire don Peppe alla società di oggi?
Peppe è ancora attualissimo, ci direbbe ancora una volta di salire sui tetti per annunciare parole di vita, gridare ancora forte la nostra insoddisfazione in questa società e la nostra voglia di libertà, il nostro modo di essere.
E non basta gridare: dobbiamo anche muoverci, camminare, prendere per mano la nostra vita e farne un capolavoro, dobbiamo fare in modo da poter sopravanzare, guardare lontano, traguardare gli orizzonti. Don Peppe continuerebbe a dirci questo e oggi continua a camminarci accanto.
Prima ha citato don Puglisi, sperate in futuro di avere anche un don Peppe beato?
Abbiamo consegnato nel 2015 alla diocesi di Aversa una richiesta di beatificazione consegnando una lettera a firma del Comitato, del testimone Augusto, della famiglia, di altri sacerdoti. Adesso c’è una Commissione che sta raccogliendo testimonianze, libri, scritti. Forse il tempo non è ancora maturo perché Peppe possa diventare beato, quando sarà il tempo giusto anche don Diana lo diverrà, noi ci crediamo, ma è un iter interno alla Chiesa, noi possiamo essere un pungolo. Ma
guai a pensare a un Peppe da mettere sotto una campana di vetro, un santino al quale dire una preghiera e basta. A noi appartiene il Peppe inquieto, contestatore, che continua a parlarci, a metterci la mano sulla spalla, che continua a interrogarci e anche a rimproverarci, ci appartiene quel Peppe con cui vogliamo continuare a sognare percorsi di libertà, orizzonti più belli e puliti, società migliori, alternative alla camorra e alle mafie, dove le persone costituiscono il capitale sociale e la ricchezza di un territorio, quel Peppe che continua a parlarci e a costruirci dal di dentro.