Denatalità. Rosina: “Disinvestendo sulle nuove generazioni, l’Italia ha reso fragile e instabile il suo futuro”
“L’Italia da troppo tempo è uno dei Paesi che meno sostengono la scelta di avere figli”, denuncia al Sir il demografo, commentando gli ultimi dati Istat che mostrano come nel 2020 ci siano stati 15mila nati in meno rispetto all’anno precedente
Ancora un record negativo per la natalità: nel 2020 i nati sono 404.892 (-15mila sul 2019). Il calo (-2,5% nei primi 10 mesi dell’anno) si è accentuato a novembre (-8,3% rispetto allo stesso mese del 2019) e dicembre (-10,7%), mesi in cui si cominciano a contare le nascite concepite all’inizio dell’ondata epidemica. Sono alcuni dati emersi nel report “Natalità e fecondità della popolazione residente” riferito all’anno 2020, diffuso dall’Istat martedì 14 dicembre. Secondo i dati provvisori di gennaio-settembre, segnala l’Istat, le minori nascite sono già 12mila e 500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Il numero medio di figli per donna scende nel 2020 a 1,24 per il complesso delle residenti, da 1,44 negli anni 2008-2010, anni di massimo relativo della fecondità. Di questi dati che ancora una volta richiamano sull’inverno demografico in Italia parliamo con Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia e statistica sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Professore, i dati Istat su natalità e fecondità della popolazione residente nel 2020 sono quelli che si aspettava?
Il quadro negativo del 2020 è purtroppo quello che ci aspettavamo. Nei mesi che corrispondono ai concepimenti precedenti lo scoppio della pandemia, ovvero il periodo da gennaio ad ottobre, le nascite sono diminuite in linea con il percorso negativo di tutto il decennio precedente. Ricordiamo che tra il 2010 e il 2019 i nati sono passati da oltre 560mila a 420mila. Nello stesso periodo il numero medio di figli per donna è sceso da 1,44 a 1,27, ma per le cittadine italiane il valore è ancora più basso, pari a 1,18.
Dati da record negativo, sia rispetto alle dinamiche passate sia nel confronto con gli altri Paesi europei. La pandemia ha poi completato il 2020 con valori ulteriormente al ribasso.
Se la riduzione nei primi dieci mesi rispetto all’anno precedente era stata di -2,5%, a novembre diventa -8,3%e a dicembre -10,7%. Un chiaro effetto della prima ondata e del corrispondente lockdown. Si conferma l’impatto anticipato dall’indagine internazionale condotta dall’Istituto Toniolo ad aprile 2020, che mostrava come i giovani italiani fossero quelli più preoccupati dall’impatto della pandemia sui propri progetti di vita.
Tra i dati emersi quali sono quelli che la preoccupano di più? Il minimo storico di nascite nel 2020 o l’ulteriore aumento della denatalità nel 2021?
I dati Istat mostrano come gli effetti negativi della pandemia investano anche il 2021. Anzi, proprio gennaio 2021 è il mese che porta le maggiori conseguenze del primo lockwdown. Del resto, la celebrazione dei matrimoni è stata in quella fase sospesa e nel complesso del 2020 le nozze sono risultate dimezzate rispetto all’anno precedente. La ricaduta negativa sulle nascite del 2021 era quindi attesa.
La preoccupazione maggiore ora riguarda il fatto di non essere ancora completamente usciti dalla crisi sanitaria. Questa durata che può lasciare conseguenze gravi in un Paese con una demografia già fragile.
Quanto ha pesato, dunque, la pandemia su questo calo di nascite e quanto pensa che potrà ancora incidere sulla denatalità?
Riguardo all’impatto complessivo della pandemia, l’unica certezza è un 2021 che alla fine conterà meno di 400mila nascite. Difficile però misurare quanto della riduzione rispetto al 2019 è da imputare alla crisi sanitaria in sé. Non sappiamo infatti se il 2021, senza Covid-19, avrebbe mostrato un miglioramento rispetto alla continua caduta nel decennio precedente. Le proiezioni Istat fatte prima della pandemia indicavano un 2021 con un numero medio di figli per donna in aumento. Siamo, insomma, in grado di calcolare lo scarto rispetto agli anni precedenti, ma non lo scarto tra il valore che ci sarebbe stato nel 2021 senza epidemia rispetto a quello realmente osservato. Nella valutazione generale va poi anche considerata l’entità della ripresa dopo la crisi sanitaria.
Solo se sarà una ripresa in grado di alimentare una solida inversione di tendenza delle nascite l’Italia avrà ancora la possibilità di evitare lo scenario peggiore, quello di squilibri demografici progressivamente insostenibili.
Si riduce il contributo alla natalità dei cittadini stranieri, soprattutto le donne più giovani posticipano la maternità, la fecondità delle cittadine italiane al minimo storico: l’Italia non è un Paese per i bambini?
Purtroppo l’Italia da troppo tempo è uno dei Paesi che meno sostengono la scelta di avere figli e mettono poi nelle condizioni di investire adeguatamente sulla loro crescita e formazione.
Siamo infatti un Paese con bassa natalità ma anche alto rischio di povertà per le famiglie con figli, che diventa poi anche povertà educativa. La conseguenza è che i giovani rimangono a lungo a dipendere dai genitori, più tardi arrivano a formare una propria famiglia e maggiormente si trovano a rinunciare a realizzare pienamente i loro progetti di vita per le difficoltà che incontrano sia a stabilizzare il proprio percorso lavorativo sia poi a conciliare lavoro e famiglia. Come evidenzio nel mio libro “Crisi demografica. Politiche per un Paese che ha smesso di crescere” (Vita e Pensiero, 2021),
l’Italia è un Paese che ha disinvestito quantitativamente e qualitativamente sulle nuove generazioni. Rendendo così pericolosamente fragile e instabile il proprio futuro.
C’è, secondo lei, abbastanza coscienza del problema che causa al Paese questo pesante inverno demografico?
La consapevolezza c’è ma è debole rispetto alla gravità degli squilibri che la crisi demografica sta producendo e alla determinazione che servirebbe per mettere in campo politiche in grado di invertire la curva negativa.
Oramai la popolazione italiana ha una struttura così compromessa che non può più tornare a crescere nel resto di questo secolo, ma una inversione di tendenza delle nascite aiuterebbe a ridurre gli squilibri crescenti tra generazioni anziane e generazioni giovani-adulte. Consentirebbe quindi uno sviluppo più sostenibile, dal punto di vista sia economico sia sociale, del Paese.
Come invertire la tendenza e cosa serve per far ripartire la natalità? Quali sono le “responsabilità” della politica?
Le responsabilità della politica sono chiare.
Da decenni le politiche familiari e per le nuove generazioni sono tra le più deboli e carenti in Europa.
Per far ripartire la natalità, partendo dai livelli più bassi in Europa e con una struttura demografica meno favorevole, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche da realizzare dal 2022 in poi. Per farlo serve la migliore combinazione tra l’uso delle risorse di Next generation Eu, l’attuazione delle misure integrate previste nel Family act, un clima del Paese che torni ad essere positivo e incoraggiante verso le scelte del presente che impegnano positivamente verso il futuro.