Da minatori a lavoratori di alto livello: evoluzione dell’emigrazione italiana in Belgio
Dedicata ai nostri emigrati in Belgio, l’ultima di una serie di ricerche curate da Franco Pittau, per conto del Centro Studi Idos per la rivista “Dialoghi mediterranei”. Un esempio di “integrazione diffusa” che parte dal Dopoguerra, passa per la tragedia di Marcinelle, transita per le aperture belghe degli anni ’60 e approda a seconde generazioni che hanno sfruttato le opportunità. Sono 270 mila gli italiani in Belgio, senza contare i belga-italiani
Negli ultimi due decenni si sono trasferiti in Belgio, un Paese di 12 milioni di abitanti, circa 50 mila italiani, in proporzione paragonabile a quelli emigrati in Germania. In tutto, gli italiani in Belgio sono oggi poco più di 270 mila, senza contare i belga-italiani, sempre più numerosi. In parte risiedono ancora nelle zone minerarie, ma in misura consistente hanno scelto Bruxelles, sede di strutture comunitarie e di importanti realtà sociali, imprenditoriali, sindacali e religiose. A dirlo è una ricerca curata da Franco Pittau per conto del Centro Studi Idos per la rivista “Dialoghi mediterranei”. Uno studio che fa parte di una serie di ricerche finalizzate a riflettere sugli italiani all’estero. Prima del Belgio, infatti, identica analisi è stata svolta sui migranti italiani in Svizzera e Germania.
Le analisi del fenomeno concordano sul buon livello d’inserimento e integrazione di questi e degli altri italiani che, nel corso della storia di emigrazione del nostro Paese, hanno scelto il Belgio come destinazione e che qui sono riusciti a superare la fase dell'emarginazione lavorativa e molti altri ostacoli. “Questa ‘integrazione diffusa’ – si legge nella ricerca - si esprime anche con alcuni casi eclatanti, uno su tutti Elio Di Rupo, figlio di emigranti abruzzesi, che è stato primo ministro dal 2011 al 2014 e leader del Partito socialista belga: un’affermazione ‘italiana’ a così alto livello non trova riscontro in nessun altro Paese europeo”.
Il dopoguerra e l’emigrazione “assistita”. La tragedia di Marcinelle
Nel Dopoguerra il Belgio è stato il primo sbocco dei flussi migratori in partenza dall’Italia e all’epoca l'inizio non sembrava promettente: i belgi avevano bisogno di braccia e l’Italia aveva bisogno di carbone. Così, nel 1946 fu stipulato tra i due Stati il primo accordo di emigrazione “assistita”, termine enfatico rispetto al trattamento riservato a chi partiva. “Tutto fu ‘nero’: il carbone che si estraeva, le sistemazioni iniziali nelle baracche degli ex campi di prigionia, il trattamento sindacale, l’emarginazione linguistica e sociale”, si afferma. Nel 1956 si verificò il gravissimo incidente minerario a Marcinelle con 262 morti, dei quali più della metà italiani. “Da quella data l’Italia pose gradualmente termine all’emigrazione collettiva, mentre il Belgio iniziò, prima sporadicamente e quindi più decisamente, a ripensare la sua politica migratoria – si sottolinea -. Fu lentamente superata l’ostilità che il Belgio aveva riservato agli emigranti italiani, anche per via della loro provenienza da un Paese ex alleato e cobelligerante dei nazisti invasori, e prese avvio una nuova fase in cui cominciò ad essere riconosciuto il contributo positivo fornito dagli italiani all’industria carbonifera belga e, successivamente, anche ad altri settori produttivi ed economici, fino al loro protagonismo nella piccola e media impresa”.
Le aperture belghe degli anni ‘60
All’inizio negli anni ’60, politici e opinione pubblica belgi si predisposero a un atteggiamento più inclusivo: il Belgio si trovava ad affrontare complesse problematiche interne, avendo a che fare con tre regioni autonome, due comunità linguistiche e ben tre lingue nazionali. Ma ciò non impedì di farsi carico anche delle attese dei lavoratori immigrati, considerati ormai parte integrante della società. “Ciò avvenne mentre in Europa prevaleva ancora la considerazione dell’immigrazione come un fenomeno meramente temporaneo e non strutturale – afferma la ricerca -, anticipando di molti decenni le politiche d’inclusione di altri Paesi europei. Le aperture belghe furono poi rinforzate in un processo d’integrazione continentale e la Comunità economica europea, costituita nel 1957 con la firma del Trattato di Roma, consentì di dare inizio nel 1968 alla libera circolazione dei lavoratori, mentre un regolamento del 1972 attuò il coordinamento delle leggi nazionali per la loro tutela previdenziale: innovazioni straordinarie, ancora oggi all’avanguardia in tutto il mondo”.
L’atteggiamento più aperto nei confronti dei lavoratori immigrati portò a facilitare anche il processo di acquisizione della cittadinanza (tra il 1985 e il 2000 furono 68 mila i casi di acquisizione di cittadinanza belga per gli italiani) e, quindi, ad allargare anche il diritto di voto. “Le seconde generazioni si sono avvalse pienamente di queste opportunità e, senza più sentirsi in difficoltà per la diversità della loro origine, si sono fatte protagoniste di un inserimento lavorativo sempre più egualitario: non più solo minatori, ma anche lavoratori qualificati, impiegati, imprenditori, professionisti e funzionari comunitari”, si afferma.
Secondo fonti italiane, sino al 1970 si sono recate in Belgio poco più di 250 mila persone (un numero, per diverse ragioni, da ritenere sottostimato). La punta più alta si è raggiunta nel 1958 con ben 46 mila espatri in un solo anno. Numeri che, pur diminuiti successivamente, hanno portato gli italiani ad essere la prima collettività straniera in Belgio sino alla fine del secolo (attualmente sono al terzo posto).
“È comprensibile chiedersi cosa ci si possa aspettare da questo investimento in capitale umano. Agli italiani, attualmente residenti in Belgio, si aggiunge un flusso continuo di intellettuali, esperti, professionisti, manager, giornalisti, lobbisti, stagisti, studenti e operatori sociali (lo stesso Franco Pittau, curatore del presente rapporto, a Bruxelles iniziò il suo impegno da studioso di emigrazione, ndr)”.
“Il caso belga sottolinea la necessità di una politica migratoria basata sulle pari opportunità e sul dialogo interculturale e raccomanda una maggiore attenzione alle collettività italiane all’estero, in particolare agli italiani che ancora non hanno acquisito la cittadinanza del Paese in cui lavorano e risiedono”. La stessa storia dell’emigrazione, come ha ricordato Gianluca Lodetti del Patronato Inas nel tirare le conclusioni del saggio, va valorizzata per coltivare le prospettive d’impegno futuro, anche e soprattutto in senso geopolitico.