Da L’Avana a New York: le dissonanze tra Sud e Nord globali. Un dato su cui riflettere. Nota geopolitica
Il sistema internazionale attraversa una fase di profonda revisione, segnata dalla dialettica tra Nord e Sud globali
La serrata sequenza di summit offerti dalle cronache odierne esprime un messaggio inequivoco: il sistema internazionale attraversa una fase di profonda revisione, segnata dalla dialettica tra Nord e Sud globali. Un confronto tuttavia svolto con in linguaggi differenti, quanto le direzioni degli sguardi degli interlocutori.
Non ha fatto eccezione la 78a sessione dell’Assemblea generale Onu, tenuta la scorsa settimana per discutere lo stato dell’arte con riguardo al perseguimento dei 17 Obiettivi dello Sviluppo sostenibile varati 8 anni fa dall’Agenda 2030. Nonostante l’ordine del giorno inequivoco, il risalto prestato a talune pieghe suggerisce elementi su cui importa riflettere.
Sebbene la realtà produca effetti senza esaurirsi nella rappresentazione che di essa si fornisce, ciò che viene incluso nella narrazione è indicativo degli oggetti su cui si è disposti a prestare attenzione. E l’attenzione, si sa, è il primo contatto con i problemi che, traducendosi in un sincero interesse, innesca la volontà di cercare soluzioni.
Confortati dalla Pacem in terris e della Populorum progressio, bisogna riconoscere che la pace – comunque coinvolta nei predetti Obiettivi – si compenetra con lo sviluppo. Ma occorre che vi sia condivisione fondamentale sui contenuti e sugli strumenti necessari a perseguire e custodire entrambi.
Con l’abbrivio del segretario Guterres, l’intervento di Biden (significativo che sia stato l’unico presente tra i leader degli Stati con seggio permanente al Consiglio di Sicurezza) è stato quello su cui i riflettori nostrani si sono prevalentemente concentrati. La rivendicazione dei successi del capitalismo occidentale nel contrasto alla povertà ha suscitato perplessità in molte delle delegazioni in platea, per lasciare poi spazio alla parte più risonante del suo discorso sulla Russia quale ostacolo alla pace mondiale. A fargli eco la rivisitazione storiografica del presidente polacco Duda sul merito passepartout degli Usa quali unici vincitori sulla Germania hitleriana, sufficiente ad accreditare la gestione del timone planetario e a legittimare di riflesso gli attori più fedelmente allineati, contro le nazioni poste dalla parte sbagliata della storia (anche se nel mentre si è consumata la tensione diplomatica tra Varsavia e Kiev sull’importazione del grano ucraino che i polacchi, a difesa del mercato interno, rifiutano di sbloccare).
A rincarare il registro, Zelensky si è espresso contro il diritto della Russia a possedere armi nucleari e sulla necessità di estrometterla dai consessi internazionali o, quantomeno, di privarla delle prerogative dei membri permanenti nel Consiglio. Con ciò rilanciando l’accusa di genocidio su cui la Commissione indipendente Onu sull’Ucraina si è da poco espressa, non ravvisando estremi per una specifica incriminazione. Parole pronunciate con fiducia per sensibilizzare la platea (invero poco numerosa in quel frangente), quantunque il primo consigliere Podolyak abbia definito l’Onu un’arena lobbistica, buona solo per le pensioni e le prebende dei suoi dirigenti, in uno con l’Aiea (rea di smentire Kiev sulla centrale di Zaporizhzhia), la Croce Rossa e Amnesty International (che denunciano crimini di ambo i fronti).
Il rilancio dell’attenzione sulla guerra non è certo estraneo al tentativo di rifidelizzare l’opinione pubblica statunitense in vista del voto, stanti i malumori sulla politica estera della Casa Bianca. Inoltre urge premere sul Congresso per alzare il tetto del debito: il viaggio a New York ha consentito a Zelensky stesso di incontrare qualche potenziale “disobbediente” di parte repubblicana alla linea dello speaker alla Camera McCarthy, che esclude la calendarizzazione di finanziamenti militari all’Ucraina per il 2024.
Ma nell’interpretare la valorizzazione, nella vetrina newyorkese, dell’agenda immediata dell’Occidente collettivo non deve sfuggire il bisogno di recuperare terreno sull’ultimo G20, sul raddoppio delle adesioni alla Shanghai Cooperation Organization e sull’allargamento dei Brics. Sicuramente non è sfuggito a Lula, che ha stigmatizzato i ritardi sulla tabella di marcia dell’Agenda 2030, deprecando le polarizzazioni manichee a questa disfunzionali unitamente all’illegalità delle sanzioni unilaterali inflitte alle economie emergenti per frenarne la crescita e conservare i vantaggi del Nord comunque in affanno.
Quel che più conta, è che questa non è la posizione del solo leader brasiliano. Si tratta in sostanza di un estratto dei punti della risoluzione del G77 tenuto a L’Avana proprio alla vigilia del summit newyorkese. 134 delegazioni governative, espressive dell’80% della popolazione mondiale, emblematicamente riunite a Cuba, stretta dall’embargo sessantennale di Washington (“El Bloqueo”) riconfermato da Biden – nonostante l’ultima mozione per la revoca abbia incontrato in Assemblea due sole opposizioni (Usa e Israele) e tre astensioni (Colombia, Ucraina e Brasile di Bolsonaro). Un luogo simbolico per denunciare tra l’altro: la divaricazione tra un’ostinata visione unipolare e un multipolarismo già in atto; l’alternanza di atteggiamenti punitivi e predatori che vanificano sistematicamente la lotta al sottosviluppo; il rifiuto a riformare l’impianto non democratico dell’Onu (dovuto all’impotenza dell’Assemblea e alla disrappresentatività regionale del Consiglio); le architetture finanziarie che subordinano gli aiuti a condizionalità strutturalmente congeniali agli elargitori; monopoli e protezionismi lesivi del libero mercato, concepiti per ostruire i canali commerciali e rallentare la competitività tecnologica altrui, a detrimento ultimo della sostenibilità sociale, economica e ambientale dello sviluppo apparentemente desiderato per tutte le nazioni.
A New York e a L’Avana, con portate divulgative eterogenee, sono state offerte diverse rappresentazioni delle urgenze che gravano sul futuro. La sfida attuale consiste nell’integrarle mediante una declinazione al singolare di globalità, con un bagno di realtà utile a evitare impieghi che attentano alla credibilità istituzionale e alle funzioni più qualificate del multilateralismo internazionale.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense