Coronavirus. Walter Ricciardi (Oms): “Ne usciremo ma non è il momento di abbassare la guardia”
L'avvio della "fase due" dovrà essere graduale, gestito con prudenza e accompagnato da un piano di test allargati e mirati e da una strategia di tracciamento individuale per limitare i contagi. Lo dice in un'intervista al Sir il consigliere del ministro della Salute mentre è atteso nei prossimi giorni il nuovo Dpcm con le misure del governo per l’emergenza
Test, tracciamento, “passaporto digitale”. Si potrebbe riassumere in questo trinomio la strategia allo studio di scienziati e tecnici in vista della “fase due” che, secondo l’orientamento del governo, dovrebbe svolgersi in due step. Il primo riguarderebbe alcune aperture di attività produttive; il secondo interesserebbe una rimodulazione delle misure per spostamenti e uscite. Nella giornata di sabato 11 aprile è atteso il nuovo Dpcm, ma gli esperti invitano alla prudenza per non vanificare gli sforzi e i sacrifici compiuti in queste settimane. “Lo scenario epidemiologico – spiega al Sir Walter Ricciardi, membro dell’Executive Board dell’Oms e consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid-19 – è in miglioramento ma rimane ancora grave. Se fosse un paziente si potrebbe parlare di prognosi riservata. C’è un rallentamento nella crescita dei contagi ma potremo sciogliere la prognosi solo di fronte ad un’inversione della curva epidemica, quando cioè i contagi cominceranno a scendere”.
Professore, che cosa possiamo aspettarci nelle prossime settimane?
Questo non è assolutamente il momento di abbassare la guardia e di vanificare tutti i sacrifici fatti;
in concreto significa che occorre chiedere agli italiani di rimanere ancora a casa per alcune settimane in modo da poter pensare a questa “fase due” da avviare gradualmente e con una serie di misure attualmente oggetto di studio e valutazione. Ma
prima occorre una riduzione sostanziale dei contagi.
Bisognerà arrivare all’indice di trasmissione zero?
A quello probabilmente arriveremo solo con il vaccino che provocherà un’immunità di popolazione artificiale, e quindi una possibilità di trasmissione prossima a zero. Fino a quel momento il cosiddetto “R con zero” (R0), ovvero l’indice di contagiosità del virus, non potrà essere così basso. Per un certo periodo di tempo la nostra convivenza con questo virus dovrà continuare, ma un conto sono diverse migliaia di casi, un conto qualche caso.
I casi “notificati” sembrano essere solo la punta di un iceberg a fronte di un importante sommerso. L’Imperial College of London stima un 9,8% della popolazione contagiata, 6 milioni di persone. Lei ipotizza addirittura il 20%. Quanti potrebbero essere effettivamente?
Le malattie infettive hanno la caratteristica che i casi cosiddetti “notificati “sono solo una parte; molti non vengono notificati perché decorrono in maniera molto lieve o addirittura asintomatica. Non sappiamo, poiché questo è un virus nuovo, di quanto i dati siano sottostimati.
Alla domanda sull’effettiva circolazione dell’infezione e sul grado di immunità della popolazione potremo rispondere quando saremo in grado di condurre lo studio di sieroprevalenza, ossia quando studieremo il siero di un campione rappresentativo di italiani per vedere quanti di loro siano protetti dagli anticorpi specifici, cioè quanti abbiano avuto la malattia in maniera clinica oppure in maniera asintomatica.
Quali sono le misure che state mettendo a punto in vista della “riapertura”?
Le riassumerei in tre step:
testing, tracking, passaporto digitale.
Testing significa ampliare i test, non in maniera indiscriminata ma in modo mirato, anzitutto facendo i tamponi molecolari al personale sanitario e delle attività essenziali. Ma per identificare precocemente i casi, e quindi limitare la pericolosità del contagio, dobbiamo sottoporre a tampone i sintomatici anche lievi, anche in presenza di un solo sintomo come tosse secca o qualche linea di febbre. Se un soggetto risulta positivo, tramite un’App sullo smartphone e dopo la sua adesione volontaria, parte il tracciamento (tracking) dei contatti da lui avuti nelle 48 ore precedenti. Queste persone verranno informate, senza ovviamente rivelare l’identità del soggetto positivo per non lederne la privacy, e invitate a mettersi in isolamento e a segnalare precocemente la comparsa di eventuali sintomi. Una task force di esperti sta lavorando su questa procedura che consentirebbe l’avvio di un circolo virtuoso.
Ma anche chi ha superato la malattia a casa, senza particolari problemi, dovrebbe essere sottoposto al test?
Sì perché la guarigione clinica spesso non coincide con la guarigione virologica. In ospedale la dimissione dei pazienti avviene solo dopo due test con esito negativo.
Per quanto tempo si può rimanere contagiosi dopo la guarigione?
Non lo sappiamo ancora; alcuni rimangono contagiosi anche diversi giorni. Il test serve per capire se chi ha superato l’infezione a casa, ancorché guarito, possa ricominciare a infettare.
Lei ha parlato anche di “passaporto digitale”.
Questa strategia potrà consentire di rilasciare una sorta di “passaporto digitale”, un “certificato di salute” da portare nello smartphone e che consenta la mobilità e la libera circolazione ai soggetti sani.
In questi giorni si sente parlare di test rapidi offerti da diverse aziende: di che si tratta?
Si tratta di test sierologici prodotti a go-go e immessi in commercio senza una validazione di efficacia. Per la legge comunitaria viene eseguita una valutazione di sicurezza, ma non di efficacia, poiché la loro sensibilità e la loro specificità non sono validate. Vanno utilizzati con molta attenzione. Il Regno unito ne ha acquistato 17 milioni di kit, rivelatisi completamente inaffidabili. Ci vorrà ancora un po’ di tempo:
tutti i test attualmente in commercio, e a maggior ragione quelli rapidi, non sono affidabili. Lo sono invece i test immunoenzimatici, eseguiti con un’apparecchiatura sofisticata e che hanno bisogno di tempi più lunghi.
Quanto si dovrà ancora attendere per una terapia specifica e per il vaccino?
Presso l’Ema (European Medicines Agency) sono in valutazione una quarantina di farmaci potenzialmente efficaci; molte sperimentazioni sono in corso anche presso la Fda (Food and Drug Administration), ma dobbiamo aspettare i risultati che non arriveranno prima di qualche settimana o mese, secondo i tempi di avvio delle sperimentazioni. Sono allo studio anche diversi vaccini ma il lasso di tempo minimo necessario per un vaccino è di 12-18 mesi.
Ne usciremo certamente, ma ci sarà un lungo periodo di tempo in cui dovremmo stare attenti. Per ora non dobbiamo allentare la guardia. Nella “fase due “dovremo continuare a muoverci con determinate cautele, in primis il distanziamento sociale.