Considerazioni su Camilleri, scrittore che andò ben oltre il suo personaggio più celebre
Una cosa davvero profonda troviamo nel Camilleri più popolare: il suo commissario Montalbano, senza neanche volerlo, lascia intuire il sospetto dell’insensatezza delle cose.
“Un pinsero improviso gli passò per la testa, non un pinsero completo, ma un principio di pinsero, un pinsero che accomenzava con queste ‘ntifiche parole: “Quanno viene il jorno della tò morti…” e che ci trasiva questo pinsero in mezzo agli altri? Era una vigliaccata!”
Già nel 2005, anno di edizione de “La luna di carta”, una delle indagini del suo pupillo, Camilleri aveva interposto persona, nel senso che ci faceva fare i conti con il naturale corso delle cose: niente di che, una maggiore lentezza nello svegliarsi, un po’ di doloretti, che vuoi fare, sembrava che i due suggerissero al lettore. Diciamocelo francamente: il Montalbano di Camilleri era una sorta di diario intimo appunto per interposta persona, perché è in questa interposizione che cambia tutto, soprattutto l’attenzione del lettore, cui non gliene può importare di meno delle confessioni autobiografiche e non pruriginose di uno scrittore colto che amava Sciascia, Pirandello, ma pure Manzoni e Gadda.
Montalbano, oltre a risolvere casi difficili, tra un caffè e una chiacchierata apparentemente innocua, ci raccontava la strada di un uomo (quasi) qualsiasi, con i suoi tic, le sue abitudini e soprattutto l’accettazione, (che non vuol dire rassegnazione), del corso degli eventi, della vita, dei suoi piaceri, dei misteri, e del tramonto. Non cercava il successo e i soldi in Montalbano, il compianto Camilleri, ma soprattutto la sintesi “nazionalpopolare” di tutto il suo bagaglio di regista, poeta, attore, scrittore, storico e amante gigionesco del mito. In “Conversazione su Tiresia” il veggente chiarisce a modo suo, vale a dire camilleriano, la questione della cecità cui sarebbe stato condannato per aver visto Venere nuda: sta guardando le belle forme della dea (“fu guardando il suo lato B che ebbi la certezza che il mondo fosse rotondo e non piatto”), e quando la dea “si accorse di me, disse -Ragazzì, guarda altrove- e io obbedii”. Come si vede, quando c’è da scherzare Camilleri scherza, ma quando c’è da fare i conti con la sofferenza degli ultimi, come nel romanzo storico “La strage dimenticata”, che guarda caso non ebbe rilevanza mediatica, la brutalità dei poteri forti emerge in tutto il suo disastro.
Un autore dalle molte facce, capace però di guardare al mondo anche attraverso la serialità anche televisiva, iniziata nel 1999, coronata sempre da un notevole gradimento, tanto da condizionare gli orari degli italiani. Ma a parte la per certi versi ingombrante presenza – che gli costò qualche fastidio interiore – del Montalbano-Zingaretti, anche con il buon vecchio cartaceo ha stabilito cifre record: 100 libri circa, non solo il commissario, 31 milioni di copie vendute solo in Italia, e centoventi lingue che hanno fatto gustare a tutto il mondo il suo singolare impasto di italiano e siculo-montalbanese.
All’attivo del compianto scrittore ci sono narrazioni affabili che parlano di storia antica, “La moneta di Akragas” ad esempio, di Otto-Novecento con “La cappella di famiglia” o di fascismo con “I racconti di Nenè”, d’arte e musica novecentesche con “La creatura del desiderio” e molto altro. Però una cosa davvero profonda troviamo nel Camilleri più popolare: il suo commissario Montalbano, senza neanche volerlo, lascia intuire il sospetto dell’insensatezza delle cose. Poi però torna alla “normalità”, ad una passeggiata sulla sabbia, al lasciarsi andare all’unica cosa che possediamo davvero e di cui non abbiamo copie seriali: la vita.
Marco Testi