Co-programmazione tra PA e terzo settore: cosa ha risolto davvero la Consulta

In un intervento al webinar di formazione di CSVnet, il professor Luca Gori analizza la sentenza della Corte Costituzionale che rivoluziona l’approccio ai modelli di sussidiarietà orizzontale introdotti dalla riforma e scioglie le questioni interpretative. Ora lo spazio è alle Regioni

Co-programmazione tra PA e terzo settore: cosa ha risolto davvero la Consulta

Lo scorso 26 giugno la Corte Costituzionale, con la sentenza 131/2020, ha chiarito il rapporto tra pubblica amministrazione e enti del Terzo settore alla luce delle indicazioni del codice del Terzo settore, in particolare gli articoli 55 e 56 (co-programmazione e co-progettazione). L’importanza della sentenza interessa non solo il diritto del terzo settore, ma più in generale il diritto costituzionale.

La necessità di ribaltare la lettura della normativa su co-programmazione e co-progettazione alla luce del principio di sussidiarietà, è il focus dell’intervento di Luca Gori, costituzionalista e docente della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa - centro di ricerca Maria Eletta Martini, durante il seminario di formazione “Il rapporto fra la pubblica amministrazione e terzo settore dopo la sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale: opportunità e punti di attenzione” organizzato da CSVnet per i centri di servizio per il volontariato lo scorso 23 luglio. Gori ha relazionato insieme all’avvocato Luciano Gallo, entrambi membri del gruppo di lavoro su “I rapporti fra PA ed enti del Terzo settore negli articoli 55-57 del d. lgs. n. 117/2017”, istituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, designati il primo dal Forum nazionale del terzo settore e il secondo da Anci nazionale. Ecco la sintesi del suo intervento.

L’impatto costituzionale della sentenza: il caso deciso. Il rapporto tra pubblica amministrazione e terzo settore è una questione principalmente costituzionale. Non è possibile, infatti, affrontare la questione nelle pieghe del Codice degli appalti, in cerca di norme che possano essere utili a raggiungere l’esito di una “certa” collaborazione. Il punto di partenza, però, è diverso: è la Costituzione stessa che richiede un diverso modo di impostare il rapporto tra pubblica amministrazione e terzo settore, alla luce dell’art. 118, u.c. Cost.. Tutte le questioni sono poi sciolte di conseguenza.

Per capire la portata della sentenza bisogna partire dall’analisi del caso concreto che l’ha originata. La sentenza riguarda la legge regionale Umbria 2/2019 che disciplina le cooperative di comunità ma non prevede che esse siano necessariamente enti del Terzo settore (Ets). Il legislatore umbro ha previsto, in tale contesto, che la Regione disciplini gli istituti della co-programmazione, co-progettazione e dell’accreditamento previsti dagli articoli 55 e 56 del codice del Terzo settore.

Il Governo ha impugnato la legge umbra sostenendo la violazione del Codice del terzo settore. In particolare, considerando che l’art. 55 prevede che i soli enti del Terzo settore possano essere coinvolti attivamente tramite co-programmazione, co-progettazione e accreditamento, l’ammissione delle cooperative di comunità – senza precisare che queste debbano essere anche Ets – avrebbe potuto determinare una violazione del riparto costituzionale di competenze tra Stato e Regioni ai sensi dell’art. 117 Cost.. La legge regionale, invece, avrebbe dovuto delimitare alle sole cooperative di comunità che siano Ets la possibilità di accedervi. 

Lo scenario della sentenza. In realtà, il ricorso del Governo si inserisce in un quadro molto complesso. Il vero “nodo”, infatti, è costituito dall’interpretazione dell’art. 55 e, in particolare, il suo ambito di applicazione alla luce dell’impostazione seguita dal parere n. 2052 del 2018, in forza del diritto euro-unitario. Il parere ha sostenuto che l’affidamento dei servizi debba essere disciplinato dal legislatore nazionale e debba rispettare la normativa pro-concorrenziale europea, in quanto rappresenta una modalità di affidamento di un servizio (un “appalto”) che rientra nel perimetro applicativo dell’attuale diritto euro-unitario. In sintesi, secondo il Consiglio di Stato ogni forma di co-progettazione deve essere sottoposta al Codice dei contratti, salvo casi eccezionali, in particolare se la procedura disciplinata dal diritto interno non abbia carattere selettivo, non tenda all’affidamento dei servizi sociali e nel caso si tratti di affidamento di servizi sociali, sia svolto dall’ente affidatario a titolo integralmente gratuito. La normativa di riferimento è, quindi, quella pro-concorrenziale di derivazione europea recepita nel codice dei contratti pubblici.

Per il Consiglio di Stato, quindi, l’applicazione dell’art. 55 è un caso eccezionale e nella sua applicazione la pubblica amministrazione è chiamata a giustificarne la scelta rispetto alle norme ordinarie. Questa posizione aggravava ulteriormente la questione.

La decisione. La Corte Costituzionale risolve il problema con quella che viene chiamata una sentenza interpretativa di rigetto. Il riferimento all’art. 55 del Codice del terzo settore, secondo la Corte, si collega esclusivamente alle cooperative di comunità che siano anche enti del Terzo settore. Per le cooperative fuori da questa cornice, la Regione può prevedere altre forme di coinvolgimento diverse da quelle previste per gli Ets.

Una prima valutazione. Rispetto al caso esaminato dalla Corte, nel complesso limitato ad un problema di delimitazione soggettiva dell’art. 55 CTS, stupisce che la sentenza sia molto ampia ed argomentata. Altre sentenze che sono intervenute sul terzo settore, sono state sintetiche, risolvendo la questione senza dilungarsi in letture di tipo generale (a partire dalla sentenza n. 185 del 2018). Caso diverso, invece, per la sentenza 75 del 1992 che ha rappresentato un vero e proprio trattato di diritto costituzionale sul valore della solidarietà e del volontariato nell’ordinamento costituzionale.

L’iter argomentativo della sentenza. L’elemento più rilevante della sentenza è che, per la prima volta, viene reso esplicito il fondamento costituzionale della disciplina del Terzo settore. La sentenza certifica il passaggio da una lettura del diritto del Terzo settore come uno spazio giuridico di deroghe, straordinario, che introduce elementi di alterazione rispetto alla parità di trattamento di tutti i soggetti, ad un diritto che ha invece una propria logica e autonomia concettuale. Nel diritto delle deroghe, inoltre, è necessario giustificare ogni singolo trattamento specifico rispetto a quella generale.

Nella prospettiva della Corte Costituzionale, invece, è la Costituzione stessa (art. 118) che prevede un diverso rapporto tra pubblica amministrazione e terzo settore improntato alla “collaborazione” per lo svolgimento di attività di interesse generale: è quindi normale che gli istituti che disciplinano questi rapporti siano diversi da quelli previsti per la generalità degli enti e delle attività.

Il fondamento costituzionale del Terzo settore. Secondo la sentenza, gli enti del Terzo settore sono espressione delle libertà sociali, non riconducibili né allo Stato, né al mercato, ma sono la gemmazione sul piano della relazione di reciprocità di quelle “forme di solidarietà” che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”.

Più concretamente, sulla base dell’esperienza e dell’evoluzione normativa, “gli Ets in quanto rappresentativi della società solidale, (…) spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della ‘società del bisogno’”. La Corte considera, quindi, il potenziale sia operativo sia di advocacy del Terzo settore per la costruzione di uno stato sociale inteso come “benessere della comunità”.

Gli Ets, infatti, sono identificati dal codice del Terzo settore come un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a “perseguire il bene comune” (art. 1) a svolgere “attività di interesse generale” (art. 5) senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (articoli da 90 a 97).

Le norme di favore per il Terzo settore. È alla luce del riconoscimento giuridico che il legislatore prevede per loro delle forme di sostegno e di favore perché sono soggetti che manifestano “una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale”: non è coerente sottoporre quel rapporto alle medesime regole previste per tutti i soggetti collettivi operanti nell’ordinamento. Questo passaggio è un vero e proprio riconoscimento giurisprudenziale del diritto del Terzo settore sul piano della legittimazione costituzionale.

Quello del Terzo settore è quindi un diritto a sé stante, con un fondamento, una logica e una sistematica autonomi, “premiale” che definisce uno dei volti della forma di stato repubblicana: si incentiva, infatti, lo sviluppo del pluralismo sociale e la collaborazione fra pubblica amministrazione e cittadini attivi. Questo quadro concettuale spiana la strada per risolvere la questione del rapporto tra pubblica amministrazione ed enti del Terzo settore.

C’è un effetto “segregativo”? Esiste un dibattito in corso rispetto all’effetto segregativo rispetto agli enti che non sono del Terzo settore. In realtà, uno degli elementi che la Corte mette in evidenza è che per gli Ets esiste una garanzia “pubblica” della loro effettiva terzietà. La loro autonomia rispetto al mercato e alla pubblica amministrazione è data proprio dal controllo pubblico previsti dalla legge. Esiste quindi una stretta connessione tra i requisiti per diventare Ets e le norme di favore. L’effetto segregativo non pare sussistere anche perché ciascun ente ha la possibilità di entrare nel perimetro del Terzo settore a condizione che si pongano realmente in condizione di “terzietà”. Ovviamente questo non risolve tutti i problemi della definizione di Ets: continuano, infatti, ad esserci enti che si trovano in una “zona intermedia”, come nel caso delle fondazioni di origine bancaria o gli enti ecclesiastici.

Ma l’elemento da non disperdere di questa sentenza è che l’individuazione del perimetro del Terzo settore è connessa alla garanzia che questi enti danno rispetto a tutti gli altri soggetti portatori di interesse. È una trama di fiducia importante: chi sta fuori da questo perimetro è semplicemente un soggetto che liberamente fa una scelta diversa, in cui la libertà è più importante rispetto sulle misure di vantaggio e promozione.

Più che segregativo, c’è un effetto di valorizzazione effettiva della capacità di partecipare alla vita pubblica e della concretizzazione dell’interesse generale.

Una chiara definizione di “co-progettazione”. La sentenza introduce anche una precisa definizione del modello configurato dall’art. 55 del codice del Terzo settore che non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico. È un modello che non prevede la contrapposizione tra due parti che contrattano un corrispettivo relativo a una prestazione definita dalla P.A., ma che si basa sulla definizione di un bisogno da risolvere (co-programmazione) e sull’individuazione di strumenti e interventi (co-progettazione) in cui le risorse di tutti i soggetti sono messe a disposizione per rispondere a una esigenza diffusa e che possono evolvere nel tempo.

È una logica diversa da quella del contratto nato per comporre interessi di natura patrimoniale divergenti. In questo caso, vi è un bisogno che è assunto in comune dalle parti che portano un contributo in una prospettiva di convergenza di obiettivi.

Gli effetti “di sblocco” sull’interpretazione dell’art. 55. L’articolo 55 viene considerato dalla Corte come un modello di amministrazione condivisa e si configura come un procedimento complesso, espressione di un diverso rapporto tra il pubblico e il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico.

Un aspetto molto interessante riguarda il conflitto con il diritto dell’Unione europea. Nonostante il ricorso del Governo non sollevi la questione, la Corte si esprime anche su questo rilevando un’assenza di conflittualità ed evidenzia come il modello dell’art. 55 rappresenti una forma di attuazione del diritto dell’Unione europea. In questo modo, infatti, si conferma che ciascun singolo Stato membro può dare attuazione nell’ambito della gestione dei servizi di interesse generale – anche di rilevanza economica – a una diversa forma di organizzazione dei propri servizi ispirata dal principio di solidarietà e non di concorrenza.

Il ruolo decisivo di Regioni ed enti locali. La sentenza lascia intendere che alla Regione spetta un ruolo fondamentale nel declinare il modello di amministrazione condivisa. Qualche giorno fa, ad esempio, la Regione Toscana ha approvato una legge di attuazione complessiva del Codice del Terzo settore all’interno dell’ordinamento regionale che offre una prima declinazione del procedimento “sussidiario” per l’attuazione della co-programmazione, co-progettazione e delle convenzioni. La linea interpretativa proposta è in netto contrasto con il parere del Consiglio di Stato.

Molte attività di interesse generale ricadono nelle competenze delle Regioni. Non vi sarà un modello uniforme di attuazione dell’art. 55 e 56 del Codice, ma una pluralità di modelli in base alla specificità dell’organizzazione di ogni Regione e del Terzo settore. Ma il “paradigma” di riferimento sarà unitario ed è definito a livello nazionale.

Su questo articolo si gioca buona parte del destino del Terzo settore e del volto sociale della nostra Repubblica. (Lara Esposito)

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