Carcere, “detenuti con disagio psichico non adeguatamente seguiti e curati”
Mancano tecnici di riabilitazione psichiatrica, oss e infermieri: la denuncia del Sinappe. Anna Gargiulo (agente penitenziaria reparto femminile Dozza): “Senza figure professionali tutto ricade su di noi: ma non abbiamo una formazione adeguata, e rischiamo di compromettere il rapporto con le detenute”
“Il lockdown ha congelato qualsiasi altra patologia. Interrompere trattamenti e terapie per chi ha un disagio psichico può significare subire importanti regressioni, cancellare anni di lavoro. Servono professionisti, figure adeguatamente formate: non possiamo essere noi, di volta in volta, a trasformarci in psicologhe, psichiatre, educatrici. Non siamo formate per questo, il rischio è anche quello di compromettere i rapporti con le detenute”. A parlare è Anna Gargiulo, agente penitenziaria nella sezione femminile del carcere bolognese, sindacalista del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Gargiulo, insieme con i colleghi del sindacato Anna La Marca (agente penitenziaria del femminile di Reggio Emilia) e Nicola D’Amore (agente penitenziario della sezione penale maschile della Dozza) nei giorni scorsi ha effettuato una visiti sui luoghi di lavoro del carcere del capoluogo emiliano. Cosa è emerso? A fronte di una positiva ripartenza post-Covid, i detenuti – sia uomini sia donne, con un disagio psichico, talvolta senza (o in attesa) di diagnosi – non sono adeguatamente seguiti e supportati.
Sono passati quasi 6 mesi dalle rivolte nelle carceri: 13 detenuti hanno perso la vita, di cui uno proprio nell’istituto bolognese. “Molti spazi della Dozza sono stati devastati, la situazione nei giorni successivi era allucinante, anche considerato che eravamo in piena emergenza sanitaria – ricorda D’Amore –. Dobbiamo riconoscere che, dopo la prima fase del lockdown e dopo i giorni immediatamente successivi alla rivolta, l’amministrazione ha lavorato molto bene, sia per prevenire e contenere i contagi, sia per ricostruire e ristrutturare adeguatamente gli spazi distrutti o fatiscenti”. Grazie all’implementazione delle misure alternative, anche l’allarme sovraffollamento è rientrato: ora i detenuti sono circa 700 (erano 900 solo pochi mesi fa). Rientrata questa crisi – gestita anche grazie a una grande implementazione delle disponibilità tecnologiche dei detenuti (i colloqui, la cui interruzione per coronavirus è stata uno dei motivi alla base delle rivolte, si sono spostati online e sono stati intensificati) – però, è di nuovo il momento di occuparsi anche di tutto il resto.
In Dozza c’è un reparto femminile che oggi ospita una settantina di detenute e c’è anche l’articolazione di salute mentale che accoglie 4 donne (capienza massima) con patologie psichiatriche. “Anche tra le detenute cosiddette comuni ci sono donne con un disagio psichico, donne che avrebbero bisogno di cure, di trattamenti specifici. Invece stanno lì, insieme a tutte le altre, convivenza che non giova a nessuno”. Nell’articolazione mentale ci sono solo un’infermiera e solo un tecnico di riabilitazione psichiatriche (TeRP, professionista sanitario presente nelle strutture riabilitative, figura istituita nel 2001 con il decreto ministeriale 29), che naturalmente hanno contratti da rispettare e ferie di cui godere. “Nel weekend, per esempio, il tecnico non c’è: se succede qualcosa – e succede sempre qualcosa – a chi ci si rivolge? Questo significa anche necessità di smaltire all’inizio della settimana il lavoro accumulato tra sabato e domenica”, spiega Gargiulo. “Nell’articolazione salute mentale c’è una donna con demenza alcolica: va lavata, cambiata, gestita – spesso ha atteggiamenti aggressivi, pericolosi per lei e per noi –, non vuole rientrare nella camera detentiva, non vuole che la camera sia riordinata. È molto difficile da gestire, non può ricadere tutto sulle nostre spalle”.
Ad aggiungere insofferenza a questa delicata situazione, il caldo – la sezione femminile della Dozza non ha l’aria condizionata, al contrario delle altre sezioni – e l’assenza totale di attività: “Non hanno nulla da fare, niente che le possa tenere impegnate. I volontari ancora non sono rientrati. Non possono che essere concentrate sulla loro condizione, è facile immaginare come si possano sentire, a maggior ragione se hanno figli all’esterno. In queste condizioni non c’è nessun recupero, né sotto l’aspetto rieducativo né sanitario: è una sconfitta per tutti”, constata La Marca.
Con sfumature diverse, le stesse necessità di un numero maggiori di figure professionali sanitarie e di una formazione adeguata per il personale è emersa anche nella sezione maschile: “Non c’è un’articolazione dedicata: anche qui i detenuti con un disagio mentale più o meno grave vivono con tutti gli altri. Avrebbero invece bisogno di essere seguiti in maniera assidua e professionale: qual è, altrimenti, la funzione rieducativa della pena? L’impressione è che il passaggio alle Rems, per ora, non stia assolutamente funzionando”, è la considerazione di D’Amore, che racconta di un detenuto che, passato di carcere in carcere, ha collezionato 80 denunce (tutte raccolte negli istituti penitenziari). “È un fallimento per il sistema penitenziario. Che aiuto sta dando il carcere a quest’uomo? Che senso ha ingolfare in questa maniera la giustizia?”.
Ambra Notari