Bambini disabili accolti: più che una casa, una famiglia vera
Non ci sono né operatori né turni, ma unicamente i “genitori”, gli eventuali figli naturali e le persone fragili accolte, soprattutto minori. Sono le case famiglia, mini realtà gestite dalla Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Benzi
«Alfredo aveva quattro anni e da quattro anni viveva in ospedale. Sempre a letto, spiaccicato sul materasso. Sempre solo, a guardare le farfalline che un’infermiera con un po’ di cerotto e una garza lunga aveva improvvisato sull’asta del lettino. Idrocefalo, con derivazione ventricolo-peritoneale, epilessia farmaco-resistente, ipovisione, ipoacusia, ritardo mentale grave. La mamma rom dopo il parto era sparita. Alfredo non aveva mai avuto il bacio della buonanotte, nessuno gli aveva cantato neanche una canzoncina per farlo addormentare. Nessuno lo aveva mai preso in braccio per fargli due coccole». Nessun genitore per lui. «Un giorno, però, due sposi, giovani e sorridenti, si accostarono alle sue sponde. Dopo due mesi Alfredo fu portato in ambulanza nella sua nuova famiglia. Finalmente arrivò il primo bacio della buonanotte, il silenzio di una casa, la risata della mamma che si espandeva in tutte le stanze, il canto sottile de La Bella Tartaruga ogni sera». Qualche anno più tardi Alfredo ebbe una crisi. «Tornò a casa dal Bambino Gesù di Roma con una tracheostomia e l’alimentazione con il sondino nello stomaco. Andò in cielo all’età di dodici anni». La storia di Alfredo, raccontata in “Quanta bellezza. Elogio dei corpi fragili e cultura della cura” di Luca Russo (Sempre editore), è solo una delle tante storie di bambini disabili che vivono in una casa famiglia. Non in quelle strutture, però, che hanno solo il nome di “casa famiglia”, ma in quelle che hanno veramente una mamma oppure un papà a mandarle avanti: una coppia sposata, un single o una persona consacrata che, dal punto di vista legale, si occupa di una piccola “comunità educativa residenziale” a tempo pieno, 24 ore su 24, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno, accogliendo in casa propria chi una famiglia non ce l’ha: minori, vittime di tratta, rom, persone con problemi di dipendenza, bambini e adulti con disabilità.
«Le case famiglia sono fronte aperto di risposta alle richieste che giungono dai servizi di welfare territoriale». Tratto dal volume “Fare bene il bene” di Enrico Miatto e Daniele Callini
In Italia la maggior parte di queste esperienze – in cui non ci sono né operatori né turni, ma unicamente i due genitori, gli eventuali figli naturali, le persone fragili accolte, volontari, ragazzi in servizio civile e tirocinanti universitari – sono gestite dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata oltre 50 anni fa da don Oreste Benzi. Una realtà che oggi conta 241 case famiglia nel mondo, di cui ben 200 nel nostro Paese, mentre in totale sono 441 le strutture di accoglienza che fanno capo alla Papa Giovanni, di cui 333 in Italia. Il 17% delle persone seguite dall’associazione ha una disabilità. In Veneto queste comunità familiari sono state al centro di un’indagine condotta nel 2018 dal Dipartimento di pedagogia dello Iusve, l’Istituto universitario salesiano di Venezia. Uno studio che poi è sfociato nel volume “Fare bene il bene. Casa famiglia e multiutenza complementare. L’esperienza dell’Associazione Papa Giovanni XXIII” di Enrico Miatto e Daniele Callini, pubblicato da Franco Angeli quest’anno.
«Le case famiglia sono fronte aperto di risposta alle richieste che giungono dai servizi di welfare territoriale - si legge nella sintesi della ricerca - Sono legate alla più ampia struttura organizzativa dell’Associazione, che cura l’avvicinamento, la socializzazione, la condivisione e la risposta alle difficoltà dei membri a diverso titolo coinvolti nella relazione di aiuto. Coloro che faranno esperienza nelle case famiglia vengono preparati e costantemente supervisionati dai referenti dell’organizzazione», da avvocati e neuropsichiatri infantili della comunità. In termini di offerta, la casa famiglia può essere, per le persone accolte, «un orizzonte di attenzione, cura e partecipazione sociale» che si espleta nella quotidianità familiare e nei legami che vengono creati. Non è però tutto oro quello che luccica: «Quando il livello di esposizione personale è così elevato, gli stessi rapporti interni alle famiglie accoglienti vengono messi in discussione. Le loro auto-rappresentazioni e il loro fare i conti con una finitezza fisica e “sociale”, propria degli individui, sono le difficoltà maggiori». Soprattutto quando sono presenti anche figli naturali. Inoltre, «una famiglia non può sopravvivere se non all’interno di un ecosistema favorevole» che la supporta e la sostiene. Soprattutto «in un momento storico in cui alla famiglia viene riconosciuto il ruolo di primo ammortizzatore sociale, senza che tuttavia vengano adottate politiche di lungo respiro capaci di trasformarla da bastione di ultima istanza delle contraddizioni sistemiche ad attore strategico sul quale giocare il futuro del Paese», conclude l’indagine.
Un’immagine tratta dal progetto “Album di famiglia”. Foto di Luca Andriani
A Città Sant’Angelo (Pescara), Fabiola e Gianni, originari di Sulmona, sempre in Abruzzo, gestiscono la casa famiglia “Terra Promessa”. Vivono con loro i tre figli naturali, Giacinta, una ragazza con grave disabilità poi adottata, e altri due minori. È una scelta di vita, perché poi non si possono respingere i bambini e le persone accolte. «Ci siamo conosciuti nel 1992, ed entrambi eravamo al di fuori di qualsiasi discorso di fede o di chiesa», racconta Gianni. «Abbiamo vissuto quattro anni di fidanzamento attraversati da alcuni lutti familiari e, probabilmente per quello, poco dopo sposati si siamo avvicinati a un movimento di spiritualità. Nel frattempo era nata la nostra prima figlia. Poi la cugina di Fabiola ha iniziato a fare accoglienza con l’Associazione Papa Giovanni, abbiamo conosciuto l’esperienza delle case famiglia e piano piano abbiamo cominciato a frequentare la Comunità. Quando nel 2010 arrivò da noi Giacinta, avevamo già tre figli». Non è stato un amore a prima vista. «Epilettica farmaco-resistente, iperattiva, con un ritardo cognitivo e a volte anche violenta, ci ha sconvolto la vita. Non ero convinta che quella fosse la strada giusta per noi, tanto che nei primi tempi non restò con noi in maniera continuativa», confessa Fabiola. Poi arrivò Diana, che l’anno dopo rimase incinta e partorì un bambino. «Nonostante i primi inserimenti non fossero andati tutti bene, decidemmo comunque di passare da famiglia aperta all’accoglienza a casa famiglia».
In questi anni la coppia ha accolto parecchie persone: minori, adulti in situazioni di disagio, madri straniere con i loro bimbi. Non senza difficoltà. «La nostra prima figlia è forse quella che ha sofferto maggiormente questa situazione, anche se tutti e tre i nostri figli hanno subito, e non certo scelto, la nostra decisione di avere sempre gente per casa. Lei e Giacinta sono coetanee, hanno entrambe 24 anni, e vivere l’adolescenza con un’adolescente problematica che arriva come un fulmine a ciel sereno non deve essere stato semplice. Queste loro fatiche noi genitori le abbiamo capite solo da poco. Speriamo che il nostro stile di vita sia una risorsa per il futuro dei nostri figli, perché alla fine si creano relazioni importanti, che lasciano il segno», conclude Fabiola.
La quotidianità nella casa famiglia di Roberto e Patrizia
Simile e allo stesso tempo diversa è anche la storia di Roberto e di sua moglie Patrizia, che a Verzuolo (Cuneo) attualmente sono i genitori “effettivi” di otto figli, grandi e piccoli, naturali e non. Inoltre sono due volte nonni. Roberto è socio volontario in una cooperativa sociale di Fossano che lava e stira lenzuola, asciugamani e tovaglie per case di riposo, alberghi e ristoranti. «Nella mia famiglia io e Patty siamo le figure di riferimento, gli educatori, siamo il papà e la mamma. Però mi piace vedere come i miei tre figli naturali siano sempre stati all’interno di questa dinamica. Sono i fratelli e le sorelle di chi fratelli e sorelle non li ha mai avuti o li ha avuti sbagliati». Anche ora che sono tutti e tre fuori di casa e due si sono sposati. Più nel passato che non oggi, «siamo una famiglia che accoglie, non Roby e Patty che accolgono».
Roberto e Patrizia si sono sposati nel 1992 e l’anno successivo è nata la loro casa famiglia: prima a Savigliano, poi a Genova e dopo sei anni di nuovo nel cuneese. Facevano entrambi già parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, anche se ci erano arrivati da strade diverse. «Io stavo cercando una proposta religiosa non sacerdotale che fosse di apertura agli altri, che mettesse al centro lo stare insieme. Lavoravo in fabbrica, facevo volontariato al Cottolengo, ma non mi bastava. Ho iniziato a frequentare la Comunità, ho conosciuto Patty e abbiamo capito che la casa famiglia era la dimensione che ci apparteneva». Dal 1993 in poi i due coniugi hanno accolto una sessantina di persone sotto il loro tetto: c’è chi si è fermato poco, chi tanto. Oggi ospitano due ragazzi con la sindrome di Down, un giovane con un passato di tossicodipendenza alle spalle e una bambina con paralisi cerebrale infantile, problemi di epilessia e la peg. Poi ci sono Daniele, con una diagnosi di schizofrenia e un ritardo cognitivo, che è con loro da 24 anni, e Iacopo, anche lui con la sindrome di Down, che fa parte della famiglia da sempre. «Valentina, invece, purtroppo ci ha lasciato all’età di 25 anni: non parlava, non camminava, era sordocieca e l’avevamo adottata», racconta.
Ma come vive questa casa famiglia piemontese? Roberto è assunto dall’Associazione Papa Giovanni, Patrizia invece è casalinga. «Per il resto la settimana ruota tutta intorno a scuola, centri diurni, visite mediche, rapporti con i servizi sociali, i servizi neuropsichiatrici e il Comune. Si fa un giro in paese, ogni tanto si assiste alle partite della squadra di calcio locale, si va in parrocchia, a fare la spesa, si guarda la tv. Il covid ci ha costretto a un isolamento a cui non eravamo abituati, soprattutto vista la fragilità di chi abita con noi, ma piano piano stiamo tornando alla normalità».
Dal punto di vista economico, «qui la Comunità è collettore delle “rette” ricevute dall’ente pubblico per le persone accolte e sostiene le case famiglia nelle spese che affrontano per cibo, bollette, vestiti, scuola e quant’altro», spiega Roberto. In Piemonte «la normativa equipara le case famiglia ad abitazioni civili, ma devono essere autorizzate dall’Asl, accreditate dalla Regione e avere un educatore professionale che le segue. Noi, per esempio, viviamo in uno stabile di proprietà della parrocchia, affidato all’Apg23, e l’educatore professionale sono io». Roberto, infatti, ha seguito tutto l’iter formativo necessario. Inoltre «bisogna compiere prima un cammino vocazionale, ossia un periodo all’interno della Comunità. Questa, poi, porta avanti incontri di condivisione e supervisione delle varie realtà con alcuni psicologi, uniti a incontri di formazione con esperti giuridici e sanitari». Perché una casa famiglia non va certo improvvisata e la buona volontà non basta.
Uno scatto tratto dal volume “Album di famiglia” del fotografo Luca Andriani
L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, nella sua organizzazione, prevede infatti figure referenti specifiche che compongono l’équipe zonale. Questa ha il compito di occuparsi delle accoglienze e degli affidi, in accordo con i servizi territoriali di riferimento, valutando la scelta della casa famiglia in base alle caratteristiche della persona che richiede o per cui si richiede ospitalità: situazione sociale, contesto familiare, elementi di disagio, eventuale quadro diagnostico, stato di necessità, capacità di autonomia funzionale e di autodeterminazione. I tempi e le modalità di permanenza delle persone accolte sono determinati dal loro bisogno e si differenziano a seconda delle necessità di ciascuno, in base al progetto educativo individualizzato redatto dall’ente inviante.
«Dal punto di vista normativo, le case famiglia ricadono all’interno della legge 149/2001 sull’adozione e l’affidamento dei minori, che parla di comunità familiari, e del decreto ministeriale 308/2001, che detta i requisiti minimi delle strutture», spiega Mauro Carioni, referente amministrativo per le case famiglia dell’Apg23. «Poi, vista l’autonomia degli enti locali, ogni Regione fa da sé: c’è chi le prevede con qualche “aggiustamento tecnico”, chi le sta sperimentando (come la Sardegna) e chi le rifiuta come Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Basilicata, Campania, Puglia e Sicilia. Oggi, però, il termine “casa famiglia” è un po’ abusato, tanto che all’interno di quelle che vengono definite “comunità educative residenziali di tipo familiare” si trovano perfino vecchi istituti che si sono riorganizzati in piccole unità. Ma noi siamo altro: abbiamo una figura genitoriale che si prende cura dei minori e delle persone accolte e che vive con loro, non ci sono operatori che turnano e siamo a multiutenza complementare, cioè senza suddivisione per età o per patologia. Non abbiamo servizi sanitari interni e ci appoggiamo al territorio».
Le case famiglia fanno parte di quel privato sociale che cerca di dare risposte concrete ai bisogni reali. «Naturalmente dobbiamo sottostare a requisiti strutturali, autorizzazioni, accreditamenti e controlli, ma l’essere incasellati ci dà anche dei diritti, come per esempio percepire rette pubbliche oppure pensioni di invalidità, assegni di accompagnamento, eccetera, in base ai vari inquadramenti regionali», precisa Carioni. «Negli ultimi 15 anni, però, il 40% dei nostri utenti non è stato sostenuto economicamente dal welfare pubblico, per cui ci siamo affidati moltissimo ai bandi, al fundraising e ad altre vie di finanziamento. L’obiettivo infatti è accogliere tutti e non lasciare nessuno senza un posto in cui vivere». E non si tratta solo di avere un tetto sopra la testa.
(L’inchiesta è tratta dal numero di ottobre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)
Michela Trigari