Agape e anarchia? Binomio che apre a un preciso stile di vita. Venerdì 10 maggio al Centro Universitario
Venerdì 10 maggio al Centro Universitario. Privare dell’elemento “comando” le relazioni, per porsi con umiltà, amicizia e zelo a servizio dell’altro
Di primo acchito questa associazione – agape e anarchia – parrebbe niente di più di una provocazione. Nulla di tutto ciò; anzi: volendo declinare in politicis l’agape cristiana in una proposta scevra da sbrodolamenti sentimentalisti e irenici, il campo semantico dischiuso dal vocabolo anarchia risulta essere pertinente. Agape è quell’eterna relazione sostanziale che, nello Spirito, unisce e distingue il Padre e il Figlio, di cui essi intendono partecipare l’uomo e l’intera creazione. Anarchia, se considerata da una prospettiva etimologico-concettuale, non va associata al proposito di eliminare anche con la violenza i detentori del potere; essa denota invece il proposito di costruire relazioni, nel contesto politico ma non solo, prive di quell’elemento che è il comando, sia esso inteso come potestas o come auctoritas. Basti pensare a Cristo, che nel lavare i piedi ai discepoli (Gv 13), si carica sino in fondo dell’umanità per risorgerla: è con tale umiltà che semina nel cuore dei discepoli la sua agape, abilitandoli così a continuare a lavarsi i piedi l’un l’altro. Quei discepoli che chiama amici e non servi (Gv 15), perché Egli non è il loro dominus. L’agape non è poi l’oggetto di un comandamento, come erroneamente traduciamo il termine greco entole di 1Gv 4: è invece quel modo che permette a qualcosa di funzionare e, allo stesso tempo, l’istruzione da seguire per farlo funzionare. Gerarchia e costrizione, gli ingredienti di qualunque forma di comando, sono assenti. E anche il comando: anarchia, per l’appunto. L’anarchia “agapicamente” intesa non denota pertanto quella dottrina e quella prassi tali per cui anarchico è chi elimina qualsivoglia padrone che lo comandi; bensì quell’atteggiamento tale per cui ci si adopera per privare dell’elemento del comando le proprie relazioni con l’altro, per potersi porre con umiltà, amicizia, zelo al suo servizio. Tornano alla mente le parole con cui Gregorio di Nazianzo incide l’icona della sua amicizia con Basilio Magno: «Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo».
Dario Ventura