Africa sfruttata e senza pace. Scene diaboliche in Nord Kivu

In Repubblica Democratica del Congo si inasprisce la guerriglia a est: violenza e atrocità, gruppi paramilitari dal Ruanda e Adf islamista. Tra colonialismo economico e miniere di coltan e cobalto. Il ruolo dell'Uganda e quello della Cina. Il racconto dei missionari

Africa sfruttata e senza pace. Scene diaboliche in Nord Kivu

In Repubblica Democratica del Congo, dopo essere uscito di scena il golpe fake del 19 maggio scorso (forse un tentativo di colpo di Stato goffamente organizzato), torna alla ribalta il vero tema: la guerra. Quella di cui nessuno parla. Una atroce routine per il popolo martire, fatta di guerriglia e di morte nelle foreste. La perversa normalità della violenza usata dai gruppi armati nell’Est del Paese, sta raggiungendo punte di disumanità mai viste. Soprattutto perché i protagonisti di queste ultime nefandezze sono sempre più spesso dei ragazzini: lo dimostrano le immagini di un video circolato a maggio scorso su canali social “privati”, che lasciano senza parole chi ha la pazienza (e il fegato) di guardare. “Scene diaboliche”, commenta alla redazione di Popoli e Missione padre Eliseo Tacchella, missionario comboniano per decenni a Beni, nel Nord Kivu e oggi in Italia. Questa mattanza, il carnage, come dicono in Africa francofona, è stato ripreso per intero con un telefonino. Evidentemente per darlo in pasto a fruitori locali, a dimostrazione della spietatezza dei “miliziani ragazzini”. Un gruppo di uomini giovani è stato catturato (pochi mesi fa) nel bush da una decina di ragazzini e uomini adulti con in mano kalashnikov e machete.

Esecuzione di massa. Dopo pochi minuti di queste scene, avviene una vera e propria esecuzione di massa – dopo che uno dei miliziani ha pronunciato parole per noi incomprensibili, in lingua locale – e nel verde della foresta saltano delle teste. Corpi di esseri umani trattati come tronchi d’albero; colpiti dai machete come si colpisce l’erba alta della foresta: è uno dei molti atroci episodi di violenza ad opera sia dell’Adf (in questo caso specifico pare fossero suoi miliziani), milizia armata “islamista” affiliata all’Uganda, sia dell’M23, il secondo maggiore gruppo armato, finanziato stavolta dal Ruanda.

Le cronache hanno raccontato questo nei mesi passati, fatti di ennesime mattanze e perdita totale di umanità:

una decina di agricoltori del territorio di Beni ha perso la vita in due attacchi armati. Brutalmente uccisi. Prima sei persone intente al lavoro dei campi sono state ammazzate a colpi di machete dai miliziani. È probabile che il video di cui parlavamo poco sopra si riferisca proprio a questo episodio. Ma subito dopo, in un secondo assalto, nel villaggio di Upende, quattro persone muoiono per un incendio doloso appiccato alle loro case. Il giornale online di Kinshasa, Actualite.cd entra nei dettagli. Il conflitto tra esercito congolese e milizie si è intensificato nelle ultime settimane di maggio 2024 anche grazie al sostegno dei wazalendo, letteralmente “i patrioti”, giovani civili chiamati ad armarsi dal presidente Félix Tshisekedi. Come una sorta di milizie civili.

Coltan e Ruanda. “Dall’inizio dell’anno ad oggi – denuncia Marie Brun, coordinatrice di Medici Senza Frontiere a Goma – abbiamo visto fuochi incrociati ed esplosioni di granate dentro i campi profughi, sia di notte che di giorno. Abbiamo registrato 24 episodi violenti che comprendono veri e propri bombardamenti, sia dentro che attorno ai campi nei quali lavoriamo”. Una crisi permanente dovuta al conflitto per nulla strisciante con il Ruanda, “Paese che finanzia le milizie armate dell’est, rendendo la vita impossibile a milioni di persone”, dice padre Tacchella. Il quale si è sempre battuto per far luce sulle miniere illegali di coltan e sulle conseguenze nefaste dell’economia predatoria. Oggi va nelle scuole italiane per raccontare ai ragazzi i motivi della paradossale povertà e della guerra nel ricchissimo Congo. “I prezzi del coltan in loco sono bassissimi: i minatori vengono pagati un nulla, ma il prezzo lievita quando il minerale arriva in Ruanda”, racconta. Poi da lì nei Paesi arabi o in Occidente. “Da fuori, dal mio punto di osservazione, non vedo affatto la buona volontà della presidenza di Félix Tshisekedi a voler metter fine agli attacchi delle milizie armate” sui villaggi del Nord Kivu, dice.

No man’s land. L’est del Congo appare come una no man’s land: un territorio vastissimo che sfugge al controllo dell’esercito e non è tutelato in nessun modo. Il presidente Félix Tshisekedi e il suo entourage (di cui fa parte Vital Kamerhe, il parlamentare preso di mira nell’attacco del 19 maggio scorso), non sono abbastanza forti nell’annientare la guerriglia.

Manca completamente il sostegno internazionale alla Rdc,

perché sostenere Tshisekedi significherebbe ammettere che il Ruanda di Kagame gioca un ruolo di aggressore e ha responsabilità enormi nel conflitto. Ruolo peraltro chiaramente emerso dai report delle Nazioni Unite. D’altra parte, agli occhi del popolo e dell’opposizione congolese, questo presidente (ex pupillo di Kabila) non ha i numeri per imporsi e per rendere davvero sicuro il suo Paese. Non stupisce dunque che ci sia chi tenti di sovvertire l’ordine.

Tragica commedia. “Il presunto golpe a me è sembrato una commedia tragica”, commenta Tacchella. “È stato subito sventato, il governo ha reagito in modo cruento, uccidendo delle persone, ma non c’era la benché minima preparazione da parte di chi lo ha organizzato”. Ben altre tragedie colpiscono invece il popolo di Goma (capoluogo del Nord Kivu) senza che si provveda ad esso: settimane fa nel campo di sfollati di Mugunga centinaia di persone sono rimaste senza casa perché una bomba ha colpito i loro accampamenti già precari. Lo stillicidio di sofferenze cui sono soggetti i più poveri tra i congolesi preoccupa i nostri missionari più di quanto non faccia un tentativo di golpe fallito. “Attorno a Goma la situazione è tremenda, la gente nei dintorni della città sta molto male”, ripete padre Eliseo. Appena un giorno prima del coup d’Etat, il 18 maggio, a Butembo, la società civile che rappresenta le famiglie di sfollati, si era riunita per denunciare inascoltata “la situazione umanitaria che peggiora di giorno in giorno”.“Le famiglie sfollate ritengono che 13 dollari al mese per vivere sono troppo pochi!”, denuncia la società civile organizzata. E in effetti così non si campa.

Lo racconta una radio-web locale: Radio Okapi, mostrando nel sito le foto delle tende di fortuna, dei grandi pentoloni adagiati sul terreno, dove un fuoco brucia con delle brodaglie e i bambini sono malnutriti, come nell’accampamento di Rutshuru. I motivi di insoddisfazione popolare sono tanti, conferma Eliseo, a partire dall’assoluta “inazione” o inefficacia della leadership congolese nel fermare il conflitto armato a est del Paese. Nel Kivu l’emorragia di coltan, cobalto e oro, illegalmente sottratti al Paese dalle milizie infiltrate dal Ruanda, “non solo impoverisce l’economia – spiega padre Tacchella – ma alimenta la guerra”. Perché è proprio grazie alla rivendita (illecita) di questi “minerali proibiti” che le decine di milizie ribelli, in particolare l’M23, prosperano, si armano e proseguono il conflitto contro l’esercito regolare. Nel Sud Kivu invece è l’oro a costituire la maledizione delle popolazioni locali.

I cinesi nel Sud Kivu. Sei società minerarie cinesi da almeno cinque anni sfruttano illegalmente le risorse d’oro e legname “in modo anarchico, opaco e con la complicità delle autorità politiche e militari africane”. Questo denunciano quattro associazioni locali di Mwenga, guidate da Fian International. “Queste società cinesi espropriano terreni senza preavviso e senza risarcimenti. La gente si ritrova da un giorno all’altro privata dei campi di manioca, dei loro stagni per l’itticoltura o delle piantagioni di palme”, racconta al telefono da Wamuzimu don Davide Marcheselli, sacerdote associato ai saveriani. Ma la vera e più recente “maledizione” del Congo non è né il coltan, né l’oro.

La iattura di chi è nato in questa terra ricchissima e straordinaria, in un momento della storia del mondo collegato alle auto elettriche e all’economia “verde”, è il cobalto.

Quasi tutto il potenziale di cobalto esistente nelle 17 miniere del Paese (al confine con l’Uganda) è nelle mani dei cinesi. “Nel prossimo futuro non sarà possibile evitare di estrarre il cobalto dal Congo, il che significa che non sarà possibile evitare i danni che l’attività mineraria provoca alle persone e all’ambiente nelle province della Rdc. Anche dopo che i progettisti avranno trovato un modo per eliminare il cobalto dalle batterie ricaricabili senza sacrificare le prestazioni o la sicurezza, la miseria del popolo congolese non finirà”. Così scrive Siddharth Kara in “Rosso cobalto, come il sangue del Congo dà energia alle nostre vite”. “Ci sarà sicuramente un altro minerale che sonnecchia nel sottosuolo che sarà reso prezioso dall’economia globale. Da generazioni è questa la maledizione del Congo”.

Ilaria De Bonis (*)

(*) redazione di Popoli e Missione

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Fonte: Sir