"A noi non hanno regalato nulla": la lettera della nonna dall’ospedale
VOCI DA CAPODARCO - "Cari nipoti miei, non vi ho più visti da quando mi sono sentita male. Sto sola in questo ospedale". E' l'inizio di una lettera che forse molte nonne avrebbero voluto consegnare ai propri cari. Un saluto commovente, tra i ricordi del passato e la paura di un virus "crudele" che ti fa piangere da sola
Cari nipoti miei,
non vi ho più visti da quando mi sono sentita male. Sto sola in questo ospedale. Mi hanno messo l’ossigeno e la tosse si è un po’ calmata; se la febbre ritorna è la fine; spero di no. Qui sono molto bravi; girano intorno a me tutto il giorno e mi fanno tante flebo. Le ragazze, con quelle mascherine, sembrano tutte orientali: dai loro occhi capisci se stanno bene o sono preoccupate; un paio di infermieri sono un po’ scorbutici. Pazienza. Dormo poco e, per non abbattermi, ripenso alle cose vissute.
Non mi lamento della vita. Ho penato, ma ho avuto molte soddisfazioni. A noi non hanno regalato nulla. Non potevano; eravamo poveri: abbiamo dovuto resistere. Mia madre morì di spagnola quando ero piccola: per paura non si trovava nemmeno chi portasse via la bara, raccontava spesso il nonno. Il ricordo più triste quando scoprimmo che il pane era chiuso nella madia. Ce n’era poco e dovevamo mangiarne un po’ tutti, a comando. Alla quarta elementare ho smesso di andare a scuola. Mi è dispiaciuto un po’ perché mi piaceva studiare. Dovevo essere utile in casa. Ho imparato a cucire, a cucinare, a lavare, a stirare. La cose più odiose sono state accudire il maiale e lavare i panni alla fontana comune, fuori dal paese. D’inverno era dura con i canestri in testa in andata e ritorno. Da ragazza fortunatamente ho trovato lavoro con i bachi da seta. Era un bresciano il proprietario. Un lavoro stagionale, ma utile perché i contributi versati li ho ritrovati per la pensione.
Ho incontrato vostro nonno a 21 anni e dopo tre mesi eravamo sposati. Il viaggio di nozze non c’era, siamo andati dalla zia a Roma. La guerra è stata una cosa terribile: andavamo nelle cantine a ripararci quando gli aerei partivano in picchiata sopra il paese per bombardare la ferrovia. Ancora la fame: a pranzo un po' di pasta e una mela.
La fortuna ha voluto che potessi fare la postina. L’ho fatto per quarant’anni e con il salario di tutti i mesi ho potuto costruire la vita di tutta la famiglia. Con molti sacrifici ho fatto studiare vostro padre e lo zio; hanno corrisposto e sono stata felice. Ho lasciato un piccolo patrimonio per ambedue. Grazie a Dio la salute mi ha assistito; qualche fastidio e nulla più. Vi penso, insieme alle zie. La vita oggi è cambiata in meglio rispetto alla mia; è giusto che sia così.
Di una cosa sola vi ringrazio: di non avermi mai lasciata sola. Vostro nonno è morto tanti anni fa; la solitudine di chi rimane vedova va combattuta. Ora mi siete rimasti voi, senza potervi vedere. Questo virus è crudele; alcune volte piango da sola. Non mi scoraggio, perché ho fatto quel che potevo. Non so se uscirò viva dall’ospedale. Spero di sì. La mia vita è nelle mani dei medici; sarà quel che Dio vorrà. Se non dovessi farcela, sistematemi nel loculo, al cimitero del paese, insieme a vostro nonno e a vostro padre. E’ tutto pronto.
Vi abbraccio forte
Vostra nonna
Vinicio Albanesi