25 novembre, un film sulle donne detenute della Dozza: “Abbandonate a loro stesse”
Diretto da Licia Ugo, ripercorre le attività di volontariato di Udi Bologna nella sezione femminile del carcere bolognese: “Volevo raccontare il significato dell’essere donna oggi e dell’essere donna oggi in carcere. Il tema della violenza di genere era il filo rosso che correva sotterraneo”
Una scelta precisa: trasformare in un docufilm il lavoro di volontariato svolto nella sezione femminile del carcere della Dozza dalle volontario Udi, l’Unione donne italiane, della sezione di Bologna. Un’opera per riflettere, per accendere una luce su un tema dimenticato dai più su donne pressoché invisibili. Un’occasione per aprire dibattiti nelle scuole e nei centri sociali, non una limitata descrizione di ciò che accade nell’istituto penitenziario. Sono queste le motivazioni che hanno spinto la regista Licia Ugo a dirigere “Detenute fuori dall’ombra” (prodotto da Arimvideo) che, dopo il Festival di Bellaria – dove è stato insignito del premio Pari Opportunità – e LiberAzioni di Torino, proiettato insieme con altri 7 lavori – parte in tour in Emilia-Romagna e giovedì 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, arriva al Cinema Lumière di Bologna (ore 20).
L’ispirazione arriva quando Licia Ugo conosce Alba Piolanti, volontaria Udi: Udi Bologna già da tempo porta avanti nelle sezione femminile un’intensa attività di volontariato. “Un lavoro poco conosciuto – spiega Ugo –. Rimasi ammirata, colpita dalla generosità di donare il loro tempo alle donne detenute. Tempo ma anche aiuto pratico, conoscenze professionali, solidarietà senza giudizio”. Le donne detenute hanno scelto liberamente di partecipare al progetto: tra le voci raccolte, oltre alle loro, quelle di alcune donne ex detenute e delle volontarie Udi. A chiudere, gli interventi di Claudia Clementi, direttrice della casa circondariale, e Massimo Ziccone, direttore dell’area educativa dell’istituto. “Mi interessava parlare dello stigma – racconta Ugo –, dei percorsi di risocializzazione. Del ruolo del volontariato tra scrittura, lettura, percorsi di autocoscienza per sostenere queste donne nel recupero di sé stesse. Molte vengono da contesti di forte disagio e non hanno gli strumenti per difendersi da sole. L’intenzione era che questo documentario fosse in grado di camminare con le proprie gambe, sollevando domande, interrogativi, riflessioni sulla nostra società e sulle modalità utilizzate per punire chi commette dei crimini. Tutto ciò, però, volevo fosse inscritto in un cerchio più grande: quello dell’essere donna oggi, dell’essere donna in carcere. Il tema della violenza sulle donne era il filo rosso che correva sotterraneo”.
Il making of non è stato semplice: “Dopo mesi di attesa, a poche settimane dalla consegna (il docufilm è stato finanziato grazie a un bando promosso dal dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ndr) – era il 2019, non sapevamo a cosa stavamo per andare in contro –, il Dipartimento amministrativo penitenziario finalmente sblocca la pratica e autorizza le riprese in carcere: due ore per le detenute, due mezze mattine per le interviste a Clementi e Ziccone, interdendoci l’accesso a tutte le zone sensibili. In pratica, ovunque”. Un altro aspetto da considerare, “il rischio che, con il loro bisogno di parlare, le donne detenute potessero esporsi o danneggiarsi. La loro tutela era prioritaria per me, non volevo realizzare nulla di morboso. Dignità e rispetto sono state le mie parole d’ordine. Ho scelto di sublimare il loro desiderio usando immagini di arte eterna, il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca di Bologna, accompagnato da una musica moderna a contrasto”. E con un linguaggio ‘visivo’ è stato reso anche il lavoro in carcere delle volontarie Udi – Katia Graziosi, Alba Piolanti, Giuseppina Martelli, Anna Vinci, Barbara Lodi e Barbara Verasani – e le testimonianze di Donatella e Rosa, due ex detenute che, “con la loro generosa testimonianza hanno gettato una luce su un aspetto spesso trascurato, la risocializzazione di chi è stato in carcere, un processo molto doloroso”.
“Lavoriamo in Dozza dal 2015 – spiega Alba Piolanti, ‘miccia’ del progetto –, su invito del Comune di Bologna. Il progetto era ‘Non solo mimose’, un invito a entrare in carcere non solo l’8 marzo”. Letture, dialoghi, incontri, confronti. Poi è arrivato il bando del dipartimento per le Pari opportunità: “Abbiamo scritto un progetto sul tema della violenza sulle donne detenute organizzato sotto forma di moduli: lettura, scrittura e cinema; lavoro dentro e fuori la detenzione; benessere – condotto da una psicoterapeuta e da un’assistente sociale –; diritti. È in questo contesto che si inserisce il lavoro di Licia Ugo. “Noi stavamo già raccogliendo materiale per un volume – racconta Piolanti –, l’abbiamo titolato ‘Fuori dall’ombra’. Con il docufilm, però, volevamo qualcosa che trasmettere l’essere e l’essenza delle donne detenute. Licia ha colto in pieno il senso del progetto”.
Quando Piolanti parla delle detenute della Dozza parla di ‘amiche’. “Stare con loro è un’esperienza coinvolgente e molto arricchente. Con loro ci siamo sempre poste solo come donne: quando si crea sorellanza riescono a esprimersi, non abbiamo mai parlato né di colpa né di reato”. Udi Bologna ha in cantiere un nuovo progetto, questa volta sulla maternità in carcere: “Stiamo partecipando a diversi bandi, speriamo di trovare presto qualcuno disposto ad aiutarci. Le donne detenute hanno bisogno di noi, così come di essere impegnate in attività”, conclude Piolanti. Durante il lockdown i contatti si sono spostati online e, al momento, stentano a riprendere gli incontri dal vivo: “Volevamo che almeno potessero sentire le trasmissioni che su Eduradio (programma radiofonico di didattica, cultura e informazione rivolto ai detenuti della Dozza, ndr) parlavano di loro e del nostro progetti ma, al femminile, non c’è un apparecchio radio disponibile. Ecco un’altra grande discriminazione. Ne abbiamo acquistati alcuni noi, sono stati autorizzati ma mai consegnati: dicono che non erano adeguati. E così, da troppi mesi, non parliamo con loro. Speriamo presto di ricominciare con loro: ci dicono che, senza nemmeno il nostro supporto, hanno fatto come i gamberi, ovvero sono tornate indietro. Per fortuna alcune del gruppo originario nel frattempo sono uscite, altre sono state trasferite. Quelle che sono rimaste ci hanno confidato di sentirsi completamente abbandonate”.
Ambra Notari