Serve un esame di coscienza. Su Giulia i giornalisti hanno dato il peggio
Davvero il caso della povera Giulia Cecchettin è stato un caso di coscienza civile e nazionale? Perché questa morte ha fatto più clamore di altre?
Sarò critico e in controtendenza, ma dinanzi alla spettacolarizzazione della morte di questi ultimi anni, difficile starsene zitti. Nel mio caso, impossibile! Che tutto ormai sia spettacolo, guerre incluse, è ormai assodato. Tutti lo vediamo e sappiamo. Ma cosa abbia fatto scattare l’indignazione nazionale, resta un mistero. Non credo sia stata l’efferatezza dell’ennesimo femminicidio cui abbiamo assistito. E lo dico avendo visto e raccontato due casi di femminicidio. Dico che stavolta tutto è stato troppo. Troppi i commenti, pure dei reciproci familiari, con esternazioni non sempre giustificabili. Troppa la smania di curiosità e notizia che il “circo mediatico” ha creato. Troppi i giornalisti in campo. Troppo l’aver mandato in diretta, l’arrivo in aereo del giovane omicida. Troppi gli opinionisti. Troppe le trasmissioni. Troppe le invettive di giornaliste e giornalisti televisivi che pur di allungare il brodo si sono letteralmente inventati di tutto e non sempre con stile, nascondendosi dietro i paraventi del giornalettismo, indagando sul caso. I giornali non sono stati da meno, in una sorta di compulsione nazionale, dove un episodio ha preso il sopravvento su altri fatti analoghi.
L’esempio l’abbiamo avuto a pochi giorni dal delitto di Vigonovo, quando altre tre donne sono state uccise dalla solita mano amica, con altrettanta efferatezza, trovando però scarna notizia qua e là, nelle notizie di tg e giornali. Mi ha fatto impressione una sera, a notte fonda, mentre passava l’ennesimo servizio senza “coda” per i contenuti ormai diluiti, il sottopancia dello schermo dove comparivano queste due notizie: “Uccisa dal marito con una mazza da baseball” e, a seguire, “Massacrata a coltellate davanti agli occhi dei figli minorenni”. Agghiacciante quotidianità, riportata però con interesse diverso. Come se esistessero omicidi più importanti di altri. È sconvolgente assistere a tutto questo. Sconvolge poi assistere agli errori che non sono mancati, come può testimoniare il gestore della pizzeria La cicogna di Torreglia, sbattuto nei giornali come parente dell’omicida. In realtà, il titolare ha sì acquistato l’immobile dal nonno di Turetta, ma venticinque anni prima. L’errore, scambiato per notizia, ha fatto rapidamente il giro delle redazioni senza alcun riscontro oggettivo, con il solito risultato che l’innocente titolare si è trovato sotto il tiro incrociato di stampa e clientela che l’hanno minacciato e insultato, fino a dover mettere sotto protezione il locale.
Questa è la macchina del fango, di cui noi giornalisti, siamo spesso fautori. E non bastano gli errori del passato. Ci ripetiamo con cinismo, nel nome del servizio d’informazione. Spostiamo i confini del pudore e del rispetto, finché il prossimo fatto di cronaca distoglierà l’attenzione su ciò su cui ci siamo accaniti, incuranti che nel frattempo si continui a uccidere, ma con importanza diversa. Per questo è bene chiedere scusa, chiedendo anche all’Ordine dei giornalisti di fare la propria parte per ripristinare il più possibile il ruolo educativo che dovrebbe essere proprio della stampa.
Zuppi, il ruolo di Avvenire nell’informare
«Come ci ha insegnato il Concilio, dobbiamo sempre leggere i segni dei tempi. Anche attraverso i giornali. In una mano la Bibbia e nell’altra il quotidiano e poi tutte e due insieme per pregare e servire. Avvenire ha un ruolo determinante nell’informare, discernere e interpretare gli avvenimenti. Offre chiavi di comprensione che aiutano l’esperienza personale a farsi conoscenza e cultura». È quanto ha dichiarato il presidente della Cei e arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi in un’intervista rilasciata a Francesco Riccardi in occasione dei 55 anni del quotidiano. «Sono due le tentazioni da rifuggire: assecondare le mentalità comuni o arroccarsi in una ripetizione esteriore, e a volte farisaica, delle proprie convinzioni. Ma questa è la sfida della vita (...): occorre stare nella complessità delle situazioni e lì riproporre la semplice, esigente verità del Vangelo».