Professoressa accoltellata a Varese: ma chi educa non getta la spugna
Il compito educativo e le istituzioni che lo presidiano – scuola, famiglia, Chiesa, associazioni e chi più ne ha più ne metta – è un compito indispensabile e primario per una comunità di persone. La cura dei più piccoli, l’attenzione ai percorsi di crescita, la progettazione di ambienti favorevoli e di situazioni che possano promuovere in positivo le persone ha a che fare con il tessuto più profondo della società e soprattutto con il suo futuro
“Come sta il ragazzo?”. Le cronache riferiscono che sono state queste le prime parole di Sara Campiglio, dopo l’intervento di urgenza cui è stata sottoposta in seguito all’accoltellamento subito a scuola, parte di uno studente.
Campiglio ha 57 anni, è un’insegnante esperta e stimata e lunedì scorso, all’ingresso della scuola, è stata aggredita con un coltello a serramanico da un diciassettenne che – riferiscono sempre i media – avrebbe problemi psichici. Un’azione fulminea, inaspettata, all’interno dell’atrio scolastico, dove successivamente il ragazzo si è soffermato a parlare con alcuni docenti in attesa delle forze dell’ordine.
Il fatto è gravissimo, naturalmente, e oltretutto gli scenari investigativi sembrerebbero aprirsi a sviluppi davvero sorprendenti, con il possibile coinvolgimento di altri giovani. Ma tutto questo è materia di indagine e lo lasciamo volentieri alle forze dell’ordine.
Qui invece torniamo sulla domanda dell’insegnante: “Come sta il ragazzo?”.
Una preoccupazione immediata, sincera, che dice molto dell’atteggiamento di cura e di passione che in particolare questa docente – ma sappiamo bene come non sia una rarità – rivolge ai ragazzi. È l’atteggiamento e la passione di tutto il mondo scolastico, che ha al centro gli allievi, la loro crescita, la loro conquista di autonomia e maturità. Un atteggiamento e una passione che spesso si scontrano con i fallimenti, fortunatamente non sempre con esiti tragici come nella vicenda di Varese. Spesso gli adulti impegnati in educazione si trovano di fronte ad un senso di impotenza, si sentono inadeguati, talvolta traditi nel loro stesso impegno.
“Io vivo per loro da trent’anni e non riesco a comprendere”: sono ancora parole della docente ferita. Potremmo trasferirle su molte bocche di educatori – insegnanti, certo, ma pensiamo anche ai genitori – che però, per fortuna, dopo lo smarrimento e lo scoraggiamento tornano al loro posto, magari con qualche cicatrice più o meno pesante, ma ancora lì a chiedersi “come stanno” i loro ragazzi, i loro figli.
Tutto questo deve far riflettere una volta di più la nostra società. Il compito educativo e le istituzioni che lo presidiano – scuola, famiglia, Chiesa, associazioni e chi più ne ha più ne metta – è un compito indispensabile e primario per una comunità di persone. La cura dei più piccoli, l’attenzione ai percorsi di crescita, la progettazione di ambienti favorevoli e di situazioni che possano promuovere in positivo le persone ha a che fare con il tessuto più profondo della società e soprattutto con il suo futuro.
Il caso di Varese è certamente singolare nella sua gravità. Ma non l’unico. Dal mondo della scuola molti segnali di disagio sono già arrivati in tempi più o meno recenti. Un altro accoltellamento di un insegnante da parte di uno studente, ad esempio, avvenne l’anno scorso, ad Abbiategrasso. E sempre nel 2023 un docente a Carpi è stato pestato a sangue da un gruppo di ragazzi della sua scuola.
Vicende esemplari, che hanno anche provocato reazioni e sanzioni. Tuttavia si dimenticano presto. C’è da essere preoccupati, ma quello che torna in tutti i casi – e che è invece una nota di speranza – è proprio il fatto che chi educa non getta la spugna. Torna ogni volta a domandarsi “come stanno” i ragazzi. Torna ogni volta sul campo. Chiede aiuto, certo. E il grido risuona ogni volta più forte.