Povertà. Russo (portavoce Alleanza): “Si scriva insieme un Programma di lotta che vada oltre le legislature”
“Siamo convinti della necessità di un ritorno a quel principio universalistico iscritto nella nostra Costituzione repubblicana”, afferma il portavoce dell’Alleanza contro la povertà in Italia, realtà che nei giorni scorsi ha festeggiato i 10 anni di attività. Nell’occasione sono state avanzate sei proposte – dal rilancio di una misura nazionale rivolta a tutte le famiglie e le persone in povertà assoluta al reddito minimo europeo passando per l’istituzione dell’Osservatorio sulle povertà. Preoccupato perché il “Paese ha scoperto l’aporofobia”, Russo lancia un appello: “Il tema della povertà ha bisogno di un processo di deideologizzazione, perché è trasversale alle forze politiche”
“Nel corso degli ultimi 10 anni in Italia ha preso piede l’incapacità di approdare ad una misura strutturale di contrasto alla povertà. A fronte di un problema come quello della povertà assoluta che è diventato strutturale, non abbiamo una misura universalistica di contrasto. Quando l’Alleanza contro la povertà è nata, nel 2013, la povertà toccava due milioni di persone. Oggi ne conta sei milioni. In un decennio si è triplicata. E per un problema che si è andato strutturando ci si sarebbe aspettato che si avviassero politiche strutturali per farvi fronte. Invece, in dieci anni si sono alternati sette governi che hanno cambiato cinque volte la misura di contrasto alla povertà”. Lo sottolinea Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà in Italia, commentando al Sir gli ultimi dati sul mercato del lavoro e sull’inflazione diffusi nei giorni in cui l’Alleanza ha festeggiato il decennale di attività riunendo a Roma le diverse figure e realtà che hanno dato vita a questa compagine, che oggi rappresenta 35 organizzazioni.
Partiamo dai dati Istat sul mercato del lavoro. L’Istat ha registrato un aumento congiunturale e tendenziale degli occupati, una disoccupazione stabile al 7,6% e la prosecuzione del calo degli inattivi di 15-64 anni. Sono timidi segnali positivi?
Ovviamente è sempre meglio avere a che fare con numeri di segno positivo, fosse pure dello 0,1%, che con dati negativi. Quanto fornito dall’Istat credo che per la prima volta ci restituisca un andamento in controtendenza sugli occupati con un +0,1% in un mese e +2,1% in un anno.
Rispetto al 2022, insomma, la situazione seppur lievemente è migliorata; ma non mi sembra il caso di enfatizzare troppo il miglioramento, anche perché stiamo parlando comunque di una situazione gravissima che interessa la disoccupazione in un mercato del lavoro che non riesce a fare fronte, soprattutto in alcune aree del Paese, all’offerta di lavoro.
Di tutt’altro segno è invece quanto rilevato dall’Inapp: l’Italia resta al palo su stipendi e produttività, considerato che dal 1991 ad oggi i salari sono cresciuti dell’1% contro il +32,5% dei Paesi Ocse…
Quello dei salari che nel nostro Paese non aumentano è un dato sul quale riflettere, a maggior ragione se paragonato a ciò che avviene negli altri Paesi dove i salari aumentano seguendo in qualche modo l’andamento dell’economia.
Con salari evidentemente più fragili rispetto alla zona Ocse è chiaro che il potere d’acquisto nel nostro Paese è inferiore rendendo più fragili le persone e le famiglie.
Questo genera una sorta di reazione a cascata che in senso più generale rende il nostro Paese più fragile. Anche perché in Italia vivono oltre 3 milioni di lavoratori poveri, i cosiddetti “working poor”. E, tra di loro, le fragilità maggiori le cogliamo tra i giovani e le donne.
Nei giorni scorsi l’Istat ha rivisto al ribasso le stime dell’inflazione che a novembre è stata dello 0,7% su base annua, da +1,7% nel mese precedente (la stima era di 0,8%). Una buona notizia, no?
Viene registrato un netto calo, rispetto ai mesi precedenti, ma anche qui dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo un indice generale per il 2023 pari al +5,7%.
I dati inflattivi, come sappiamo, toccano maggiormente con effetti peggiorativi le fasce più deboli della popolazione. È chiaro che il potere d’acquisto diminuisce e sulla spesa – dal carrello della spesa fino a quella per l’acquisto di beni e di servizi – agisce una tagliola molto più diretta e molto più forte per chi già non ce la fa.
In questo contesto, l’Alleanza ha festeggiato i 10 anni di vita. Come giudicate la situazione dal vostro osservatorio?
Sappiamo dall’ultima indagine Istat che la povertà assoluta ha raggiunto quasi 6 milioni di persone. Ciò significa che
un cittadino italiano su 10 è povero assoluto.
In questa situazione si trovano 2,4 milioni di famiglie e quasi 1,4 milioni di minori. Quest’ultimo dato deve portarci ad una riflessione più profonda su ciò che succederà nei prossimi anni; perché l’impatto della povertà sui bambini è maggiore rispetto a quello sulle persone adulte, il danno è superiore ed è un danno di futuro. Nel nostro decennale abbiamo ricordato la spinta che le 35 organizzazioni aderenti all’Alleanza ha dato alla politica per affrontare la crescita della povertà assoluta nel nostro Paese. In dieci anni, quasi ogni governo ha voluto introdurre una propria misura, ritenendo che il problema andasse affrontato in un modo diverso da quanto fatto dall’Esecutivo precedente.
Fin dall’inizio, praticamente, chiedeste l’introduzione del Reis, il Reddito d’inclusione sociale, una misura universalistica rivolta a tutte le famiglie in povertà assoluta…
Ci si andò vicino nel 2018 con il Rei varato dal Governo Gentiloni, che introdusse nel nostro ordinamento una cosa importantissima: cioè il fatto che fosse
una misura universalistica e non categoriale.
È un po’ come se il legislatore avesse detto che
i poveri sono poveri, i fragili sono fragili e non possono essere naturalmente divisi per etnia, aree geografiche, età… Da allora e fino al Reddito di cittadinanza questo principio è stato mantenuto, poi con la legge 85 nel 2023 le cose sono cambiate, al punto che dal 1° gennaio 2024 saremo nell’Ue27 l’unico Paese a non avere una misura diretta di contrasto, un reddito minimo.
Quanto vi preoccupa questo?
In questi mesi abbiamo provato con il Governo ad aprire varchi, a spiegare che questa scelta in qualche modo rappresenta un pericoloso ritorno al passato, in una situazione nella quale il numero di poveri è aumentato; fino a questo momento mi pare che la linea non sia stata modificata. Ma
ciò che preoccupa di più è ciò che è successo dal punto di vista culturale: è come se il Paese ad un certo punto avesse scoperto l’aporofobia: i poveri hanno cominciato a diventare fastidiosi dal punto di vista culturale, forse perché sono troppi. E si fa largo l’idea strisciante di chi pensa che se sei povero è perché ti sei messo tu in questa condizione, te la sei andata a cercare.
Bisognerebbe riflettere prima di affermare che tutti i beneficiari del sussidio sono degli sfaticati, dei fannulloni… Bisogna ricordare che viviamo in un Paese che sta nel cuore dell’Europa dove c’è una guerra in corso, che sta ancora uscendo dalla crisi economica cominciata nel 2008 e aggravata dalla pandemia… A questo va aggiunto che ci sono diverse tipologie di persone fragili: quelli che non hanno mai lavorato, quelli non collocabili, quelli che un lavoro ce l’avevano e l’hanno perso, quelli che non ce l’hanno e vivono in una parte del Paese in cui il sistema di welfare e il sistema di infrastrutturazione delle politiche del lavoro è più fragile. E poi ci sono quelli che un lavoro ce l’hanno ma non ce la fanno comunque. Basti ricordare che le ultime annualità del Reddito di cittadinanza veniva pagato anche a chi il lavoro ce l’aveva.
In occasione del decennale avete rilanciato l’impegno presentando 6 proposte. Cosa riguardano?
La prima è un ritorno immediato, l’abbiamo già chiesto al Governo in carica e lo chiederemo ancora, al principio universalistico della misura di contrasto della povertà. Riteniamo sbagliato che l’Assegno di inclusione vada bene per una categoria di persone e non per altre. Al di là della piattaforma che forse deve essere ancora implementata per superare gli attuali problemi,
siamo convinti della necessità di un ritorno a quel principio universalistico iscritto nella nostra Costituzione repubblicana.
Una seconda richiesta è quella di ritornare a pensare una misura nazionale che sia rivolta alle famiglie e alle persone in povertà assoluta ed estendendola anche ai cittadini di origine straniera residenti almeno da un anno in Italia e non da 5 come è stabilito dalla legge 85: una misura nuova unita ad un’offerta di servizi territoriali – sociali e del lavoro – che rispondano a standard adeguati di infrastrutturazione territoriale e che preveda una gestione condivisa a livello locale con Comuni e Terzo settore, per richiamare alle proprie responsabilità anche questo mondo che nel campo dell’accoglienza e dell’inclusione sociale ha fatto cose straordinarie.
Le altre?
Chiediamo di istituire un Osservatorio sulla povertà e attendiamo che sia il ministero delle Politiche sociali a fare un passo avanti. Avvertiamo l’esigenza che venga istituito ma, soprattutto, che risponda a tre requisiti: sia autorevole, dotato di strumenti di analisi e posto nelle condizioni di poter fare proposte al Governo. Poi abbiamo proposto di assumere nella Legge di bilancio ancora in discussione in queste settimane in Parlamento gli emendamenti che Alleanza contro la povertà ha presentato. Mi lasci dire che riteniamo che
il tema della povertà, per come si manifesta e per come è cresciuto in questi anni, debba entrare dal punto di vista politico in una sorta di zona franca: c’è bisogno di un processo di deideologizzazione, perché quello della povertà è un tema trasversale alle forze politiche.
Questo rimanda alla proposta di creazione di un gruppo interparlamentare sulla povertà…
Certo. Abbiamo chiesto al Governo che si trovi il coraggio per scrivere insieme un Patto tra le forze politiche che vada oltre questa legislatura e vada oltre le legislature. Il nostro auspicio è che
si scriva insieme un Programma di lotta alla povertà
e ci si accordi che qualunque cosa accada nel Governo, anche che ne sopraggiunga un altro, quel Programma non si tocca, fino a quando non verranno raggiunti tassi fisiologici di povertà, come succede in tutte le democrazie avanzate. Su questo ci proponiamo come facilitatori, crediamo di aver dimostrato in questi anni di stare al di sopra delle parti provando a rappresentare le persone più povere e fragili. Se la politica vorrà essere aiutata anche con un gruppo interparlamentare, noi ci saremo.
L’ultima proposta?
Si tratta del Reddito minimo europeo. L’istituzione del pilastro sociale europeo non è stata fatto a caso. Nel solco di questo,
con Commissione e Parlamento Ue si deve spingere affinché sia istituito un Reddito minimo europeo, questo sarebbe molto importante anche per rendere concreta quell’Europa sociale di cui si parla tanto.
Se vogliamo contribuire ad aumentare l’appartenenza dei cittadini all’Unione europea un reddito minimo potrebbe evidentemente segnare un cambio di passo. Proveremo a capire se ci sono le condizioni perché in sede europea si apra una riflessione approfondita.
Alberto Baviera