Manifestazione no vax a Roma. Fiasco: “La democrazia si difende con la responsabilità”
"C’è stato un collasso culturale della memoria di lunghe stagioni dove noi abbiamo appreso come questo bene prezioso della democrazia è stato a rischio. Questo ha portato a un vuoto. Sul grande complesso che presidia la sicurezza nazionale ha un peso determinante, com’è giusto in una democrazia, l’orientamento che viene da chi svolge la funzione politica, cioè Parlamento, Governo e anche, in parte, i corpi sociali intermedi", spiega al Sir il sociologo
“Un atto che certamente ferisce la democrazia”, ma colpa anche della “cecità” dei responsabili politici in senso lato di fronte a “un fenomeno che nella storia ha sempre avuto un paradigma nel suo sviluppo, del suo diffondersi e dell’impattare sulla società con episodi gravi”. Così Maurizio Fiasco, sociologo specializzato, tra le altre cose, in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica, analizza, per il Sir, quanto avvenuto, sabato 9 ottobre, a Roma, con la manifestazione contro il green pass obbligatorio nei luoghi di lavoro, che si è trasformata in un assedio fino a tarda sera nei pressi di Palazzo Chigi e un assalto alla sede della Cgil.
Professore, è restato sorpreso di quello che è successo sabato?
C’è stata una vista molto corta in senso storico-politico, anche per le implicazioni tecniche della sicurezza democratica: voglio dire che
non si è visto il montare della valanga,
cioè il procedere per sequenze di un fenomeno che già abbiamo conosciuto con parole diverse, ma con attori simili, nei 50-60 anni che abbiamo alle spalle. Mi colpisce che non si impari mai dalle esperienze della storia, anche se si tratta di esperienze recenti.
Il “disastro” dei fatti di Roma – l’assalto ai palazzi del Governo, la devastazione della sede del principale sindacato italiano – era in incubazione da un anno e mezzo, c’erano stati più volte dei segnali, ma proprio per questa cecità storico-politica non si sono colte le implicazioni né operative da parte dei vari sistemi né quelle tecniche in termini di sicurezza pubblica.
La cosa più sconcertante è che veniamo da decenni di allerta antiterrorismo, che dovrebbe significare attenzione attorno agli obiettivi sensibili, nei quali rientra, oltre ai palazzi del governo, anche la sede nazionale della Cgil e degli altri sindacati. Colpisce che dopo anni di allerta il principale sindacato italiano pratichi la settimana corta e lasci nel week-end incustodita la propria sede. Non voglio criticare questa scelta, ma sottolineare la cecità di fronte alle fasi di un fenomeno che era in lievitazione, tanto più in un Paese che, ben prima dell’allerta per il terrorismo internazionale, dopo l’11 settembre 2001 e dopo gli ulteriori episodi accaduti successivamente, aveva 50 anni di esperienze e di lutti. Ma non possiamo spiegare tutto solo con la cecità.
Cos’altro non ha funzionato?
Più in generale,
c’è stato un collasso culturale della memoria di lunghe stagioni dove noi abbiamo appreso come questo bene prezioso della democrazia è stato a rischio.
Questo ha portato a un vuoto. Su Polizia, Forze armate, Protezione civile e Sistema sanitario – cioè il grande complesso che presidia la sicurezza nazionale in tutti i suoi significati – ha un peso determinante, com’è giusto in una democrazia, l’orientamento che viene da chi svolge la funzione politica, cioè Parlamento, Governo e anche, in parte, i corpi sociali intermedi.C’è stato un difetto di orientamento generale, cioè di interpretazione nelle sfere politiche, non del singolo ministro, ma in senso globale di tutti gli attori che una democrazia costituzionale come la nostra riconosce come appropriati a determinare le scelte: in queste sfere c’è stata un’invisibilità del fenomeno che stava crescendo,
per cui è persino grottesco accusare la gestione tecnica della piazza, perché quello è uno spazio operativo di ordine pubblico materiale che va lasciato all’ufficiale di pubblica sicurezza che comanda in quel momento e deve adottare la scelta tecnica che riduce il più possibile gli esiti cruenti di una situazione. È mancata la cognizione di un fenomeno che ha avuto un anno e mezzo per maturare.
Com’è nato questo fenomeno?
Vi è una costante nella storia da 200 anni a questa parte, data dall’esistenza sempre e in ogni dove di gruppi eversivi minoritari che seguono sempre uno schema ricorrente: la ricerca di un ponte tra loro e un ambiente dove poter inserire le loro posizioni violente, antidemocratiche e sovversive. Queste “territorio” si è creato nell’arco di un anno e mezzo in varie fasi: c’è stata quella dell’insofferenza verso le limitazioni per fronteggiare la pandemia, per esempio verso il lockdown, quella dell’insofferenza verso le restrizioni in determinate attività, quella dell’insofferenza verso le prescrizioni dei presidi medico-chirurgici, come vaccini, tamponi, green pass.
Una continuità dell’insofferenza, che riguarda una minoranza degli italiani, ma abbastanza consistente, perché assorbe anche il risentimento, la frustrazione, il non sentirsi compresi da parte di una quota della società italiana che sta pagando anche materialmente i costi della pandemia.
Non dimentichiamo che per un terzo delle famiglie italiane l’emergenza sanitaria ha comportato una situazione molto pesante di disagio economico e materiale. Quindi, diventa il buco nero in cui confluisce tutto.Il gruppo eversivo trova così un “mercato” dove poter speculare e passare dal “minoritarismo”, poche centinaia di persone, a una copertura di migliaia di persone.
Ma, tra queste, non ci sono solo quelli che hanno visto il reddito familiare ridotto e soffrono per la precarietà economica o quelli che soffrono una fragilità psicologica.
Chi sono gli altri?
Quelli della “upper class”. Ci sono degli umori intellettualistici di componenti delle classi colte che hanno un’“insofferenza sofisticata”, hanno letto e ricordano bene Michel Foucault che inquadrava nella Francia del XVII e XVIII secolo, nel controllo delle pestilenze, l’origine del biopotere e della biopolitica. Il biopotere non si limiterebbe a proteggere, a tutelare e accaparrarsi il monopolio di alcune funzioni, come la proprietà, le armi, la difesa, ma è un potere che vuole ingerirsi nella vita delle persone. Dal biopotere nasce la biopolitica.
Di fronte alle restrizioni, Dpcm, le cautele sanitarie per evitare il contagio e l’aumento dei morti, gli intellettuali hanno rapportato le misure adottate oggi, in uno Stato democratico, a quelle dell’epoca dell’assolutismo in Francia. Così ora riascoltiamo da parte di alcuni questi concetti di biopotere e biopolitica. Anche loro hanno contribuito al disorientamento.
Cosa si può fare ora per arginare questi fenomeni?
La prima cosa è creare una narrazione del positivo maturato nella stragrande maggioranza degli italiani, in una congiuntura che dura da oltre un anno e mezzo.
In questo lasso di tempo c’è stato un popolo invisibile nei media e tra le classi colte, che ha dato e continua a dar prova, con umiltà, di responsabilità, di solidarietà, di spirito fattivo. Ci sono migliaia di episodi di resistenza morale nelle comunità che non vengono raccontate.
La prima cosa da fare è mettere sulla scena queste storie popolari presenti in tutte le venti regioni italiane, dalla cassiera del supermercato al fattorino, dall’autista ai più celebrati, gli operatori sanitari e le forze di polizia. In questo senso, cito l’episodio di cui sono testimone nel periodo di lockdown, l’anno scorso: ogni giorno alle 12 il parroco della chiesa vicino casa mia saliva sul tetto della chiesa, tutto il vicinato si affacciava, allora il sacerdote con parole semplici e sobrie rincuorava e dava la benedizione. Questo piccolo gesto aveva un grande effetto di rinforzo sul disporsi al resistere da parte delle famiglie, senza insofferenza, senza piangersi addosso per fronteggiare un evento eccezionale.
Ci sono altre strategie da adottare contro la violenza?
Oltre ad accendere i riflettori sulla resistenza di massa degli italiani, la seconda contromisura è la necessità di un indirizzo illuminato da parte dei decisori politici e la terza è che i corpi intermedi, quindi anche i sindacati, riorganizzino la propria quotidianità.
Il resto è una questione tecnica: ci pensano la Polizia e la Magistratura. Rispolveriamo un’espressione degli anni Settanta: bisogna togliere acqua ai pesci della violenza. Più acqua c’è e più i pesci della violenza nuotano agilmente. E si toglie l’acqua, ribadisco, dando la scena non all’intellettuale che si sente umiliato perché deve rispettare le restrizioni né al politico che vuole approfittare di questa minoranza per captarne il consenso e fa come l’apprendista stregone di Disney. Oggi le famiglie stanno uscendo dall’incubo. La quotidianità non è quella del movimento, pure di massa, che scende in piazza contro le restrizioni e green pass, ma che non sarebbe stato così numeroso sabato se non avesse avuto l’avallo di esponenti politici centrali.