La felicità è nel tempo da vivere con i propri cari. Il 2025 di speranza di Gino Cecchettin

Gino Cecchettin: «Dopo quello che abbiamo passato auguro ai miei figli la felicità. Vorrei meno odio e vorrei vedere più fiducia nei giovani da parte degli adulti. Tornassi indietro rinuncerei a mille riunioni di lavoro per stare di più con Elena, Davide e Giulia».

La felicità è nel tempo da vivere con i propri cari. Il 2025 di speranza di Gino Cecchettin

Il suo primo e ultimo pensiero vanno ai suoi figli. Anche in questa chiacchierata, anche parlando di futuro, di quello immediato, e del passato, Gino Cecchettin ha sempre al centro della sua vita Giulia, Davide ed Elena. Dopotutto se potesse, se fosse nei suoi “super poteri”, a Davide e a Elena consegnerebbe un 2025 di felicità e serenità.

Quello che ci apprestiamo a vivere è un anno giubilare, che ha al centro il valore della speranza. Se dovesse pensare al 2025, a qualcosa su cui investire in termini di speranza, qualcosa su cui riporre fiducia, cosa le viene in mente?
«Pensando alla mia famiglia vorrei consegnare la felicità, anche un po’ egoisticamente: abbiamo attraversato momenti talmente duri che auguro veramente ai miei figli di avere un anno completo di felicità. Se penso, invece, a tutta la comunità e alla società dove viviamo vorrei ci fosse un anno in cui venisse meno l’odio, perché quello che percepisco è tanto odio che si manifesta in diversi modi, dalla violenza vera e propria, ma anche dalle parole che girano nelle conversazioni comuni, nelle conversazioni anche istituzionali. E questo fa male. La speranza è di vivere un 2025 privo di odio che si propaga nella società con le parole di noi uomini».

Però questi anni ci hanno consegnato germogli di bontà, dalle iniziative per ricordare Giulia alla tenacia di ragazze e ragazzi nel non fare passi indietro su temi di uguaglianza, rispetto, diritti. È su di loro che possiamo investire?
«Dobbiamo investire su di loro. Hanno tanta energia, tanta consapevolezza che si può vivere in serenità e pienezza e non gli stiamo dando sufficientemente voce perché questo avvenga. Chi ha qualche anno in più li tratta con sufficienza, ma ne ho conosciuti tantissimi che hanno grandi capacità, talenti che andrebbero coltivati. E soprattutto molta consapevolezza di quello che è giusto e di quello che non è. Bisogna costruire con i giovani, ma va fatto “di concerto” affinché anche noi possiamo imparare».

Dovremmo, rompere quella barriera “adulto-adolescente”, insomma, lasciarci guidare noi tutti nel prendere decisioni politiche, sociali, educative...
«Sì, soprattutto considerando che quando loro vedono un determinato aspetto della società e cercano di proporre una soluzione, vedono in avanti di diverse decadi rispetto a noi, hanno una visione più a lungo termine, duratura. Le nostre potrebbero essere soluzioni di convenienza, invece loro hanno uno sguardo che a noi sfugge. Per questo cerchiamo di ascoltarli di più».

Dopo la lettura della sentenza di ergastolo nei confronti di Filippo Turetta lei ha detto che «abbiamo perso tutti come società». Non è una sconfitta individuale, chiama tutti noi a una responsabilità soprattutto il livore e l’odio minaccioso che sono seguiti. Come possiamo agire per parlare con i nostri pari, per convertire questo male in dialogo?
«Come essere umani dovremmo fare affidamento a quello che è alla base delle relazioni, che va al di là di tutte le ideologie: non si può interagire partendo da un concetto di violenza. Bisogna incominciare a partire dal rispetto reciproco e iniziare a vedere il prossimo come un fratello. Lo so che sembra un’espressione quasi retorica, ma mi sento di dirla da essere umano che guarda così ogni suo simile. Se partissimo da questo punto di vista tutto il resto verrebbe da sé, e da questo arriva la mia considerazione a fine processo: mi sono immaginato come essere appartenente alla società che arriva a un grado di giudizio con due sconfitte, una ragazza morta che era mia figlia e un ragazzo che ha perso l’opportunità di vivere e questo dovremmo cercare di non replicarlo più. Nel modo più assoluto. E passa attraverso la cultura, la cultura del rispetto, quel comportarsi in modo proattivo, nel momento in cui si decide di fare qualcosa assieme, nel lavoro, nelle amicizie, in qualsiasi campo cercare di capire assieme come creare valore».

Sono papà da 18 mesi, le confesso che ho paura che tutto quello che io e mia moglie stiamo costruendo e costruiremo, come valori, principi e responsabilità, sia fragile davanti a questo mondo. Da papà a papà che consiglio mi può dare?
«Per mia esperienza personale, il meglio esce da un genitore che dona amore e non dona un esempio violento. Con Elena confesso che mi è partita qualche sculacciata quando era bambina, ma già con Davide, grazie all’esperienza fatta negli anni e anche con la maturità, non ho mai nemmeno avuto la necessità di alzare la voce: ho capito l’importanza del rinforzo positivo, dell’abbraccio in più quando se lo meritava. Tutto questo appagava ed educava molto più di una sgridata. Quanto donerai l’amore a tuo figlio e lo istruirai a capire cosa è giusto, magari facendogli passare qualche turbolenza che sono parte della vita e lo rinforzeranno, allora avrai cresciuto un ragazzo in grado di contrastare i mali. E dona tanto tempo, ogni tempo libero che hai donalo: è la cosa più importante. Se tornassi indietro rinuncerei a mille riunioni di lavoro pur di stare con Davide, Elena e con Giulia».

Educazione

Dopo il femminicidio di Giulia si è parlato molto dell’educazione all’affettività. A che punto siamo?
«Quando parliamo con le nuove generazioni c’è tanto margine e c’è richiesta; è più difficile educare all’affettività generazioni più adulte. Non bisogna demordere, anzi sono loro che verranno contaminate dalle generazioni dei giovani. Io tante cose le ho imparate dai miei figli: quando i giovani iniziano a respirare aria diversa e rientrano a casa e sentono magari un’espressione violenta o misogina, sono loro a dire che non si fa così. Un genitore quando lo sente dai propri figli, qualche domanda se la fa».

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