Il discorso “scomodo” del Papa al corpo diplomatico
Non perché è ideologico, come molti si ostinano a ripetere, con l’obiettivo di creare conflitti intra-ecclesiali e nell’opinione pubblica, ma perché mette ciascuno e dunque anche i decisori e i responsabili politici di fronte alle proprie responsabilità. Assicurando nel frattempo comunque la sollecitudine pastorale e caritativa alle persone concrete. Ma nella chiara distinzione dei piani e dunque delle responsabilità
È un tono fiducioso quello usato da Papa Francesco nel tradizionale discorso di inizio anno al Corpo diplomatico. Delle tante situazioni, in tutti i continenti, Europa compresa, di conflitto e di tensione, tende a valorizzare, senza nulla tacere delle sofferenze, gli aspetti che possono fare comunque bene sperare.
L’atteggiamento, il tono, non è poco, in un mondo privo di baricentro, in cui questo strano terzetto, uno più due, come dicono gli osservatori, ovvero Stati Uniti e poi Cina e Russia, non riesce ad esprimere un equilibrio, ma procede a strappi.
Tono fiducioso in particolare su un dossier in cui la Santa Sede è direttamente interessata, ovvero quello della libertà religiosa in Cina.
La cornice è una lettura realistica e soprattutto personalistica ed umanistica del “multilateralismo”. Che Papa Francesco riprende dal discorso alle Nazione Unite di san Paolo VI nel 1965 e orienta con chiarezza verso la “difesa dei deboli”, denunciando la “ricerca di un consenso immediato e settario” a breve termine, e “forme di colonizzazione ideologica” di “globalizzazione sferica”, che produce per reazione populismi e nazionalismi.
Qui c’è anche la questione dei migranti. Su cui il discorso al corpo diplomatico rappresenta una buona occasione per riflettere. E fare chiarezza.
Perché purtroppo sta diventando corrente nel sistema della comunicazione e per derivazione anche nel discorso comune, quotidiano, l’equazione Papa Francesco-accoglienza dei migranti. Si sta accreditando insomma la volgata per cui il Papa non avrebbe null’altro da dire e non dica altro. E per di più in modo perentorio e acritico. Così si attivano opposte tifoserie, si fa un bel po’ di baccano mediatico, con il pratico risultato, caricaturandola, di applicare il silenziatore alla voce del Papa (e della Chiesa), ridotto alla ripetizione di un refrain che ne enfatizza la marginalità. E così nessuno si prende la briga di mettere in atto concrete politiche pubbliche per fronteggiare la questione. Limitandosi appunto alla propaganda.
In realtà il punto è proprio questo e nel discorso al corpo diplomatico, che, per dare una misura delle cose, dedica giustamente meno di un dodicesimo dello spazio alla questione dei migranti, dice con chiarezza: “Le recenti emergenze hanno mostrato che è necessaria una risposta comune, concertata da tutti i Paesi, senza preclusioni e nel rispetto di ogni legittima istanza, sia degli Stati, sia dei migranti e dei rifugiati”.
Certo il discorso del Papa è scomodo. Ma non perché è ideologico, come molti si ostinano a ripetere, con l’obiettivo di creare conflitti intra-ecclesiali e nell’opinione pubblica, ma perché mette ciascuno e dunque anche i decisori e i responsabili politici di fronte alle proprie responsabilità. Assicurando nel frattempo comunque la sollecitudine pastorale e caritativa alle persone concrete. Ma nella chiara distinzione dei piani e dunque delle responsabilità.