Il contagio non è una guerra. In tempo di Coronavirus è utile tornare a riflettere sul buon uso delle parole
Sono molte le differenze tra malattia e conflitto. E forse sarebbe meglio cambiare paragone.
Abbiamo paura della malattia. La esorcizziamo talmente tanto da chiamarla con un nome diverso. Tanti premier nazionali e leader politici nel dibattito pubblico, che attraversa in queste ore e in questi giorni i palinsesti delle più variegate trasmissioni, paragonano la tragedia epocale in cui siamo immersi a una guerra. Si invoca così la coesione e ci si appella all’unità nazionale.
Ma le differenze sono molte. E forse sarebbe meglio cambiare paragone. Intanto i conflitti sono iniziati dalle nazioni o – all’interno di esse – da fazioni diverse, sono legate generalmente a interessi economici o di potere, alla ricerca di gestione delle risorse naturali o delle reti che sono costruite per distribuirle. Poi le guerre vengono giustificate da ragionamenti politici: la difesa del “benessere nazionale” oppure la protezione della propria identità etnica o religiosa e così via.
E soprattutto nelle guerre ci sono persone che uccidono altre persone. C’è un fronte dove si combatte e una retroguardia dove si preparano i rinforzi e si producono i rifornimenti.
Non siamo in una guerra, perché la guerra ce la procuriamo da soli, tanto che il segretario generale dell’Onu, il portoghese Antonio Gutierrez, chiede in un video di fermare ogni attività bellica nel mondo in questo momento. Di fronte alle vittime di una guerra, l’umanità non ha scuse che tengano.
La malattia è un’altra cosa. Colpisce senza rispettare i confini o le frontiere, le nazionalità o le diverse indentità etniche. La malattia non è procurata da nessuno. Questo ci rende fragili, perché ci pone dentro l’imprevedibilità del futuro. Ci pone davanti alla questione dei nostri limiti e della finitudine. L’epidemia, anzi la pandemia, che si diffonde è un accidente che richiede solidarietà e condivisione, richiede responsabilità personale e collaborazione tra le comunità.
Accelereremo l’uscita da questa tragedia globale non solo con i sacrifici personali per applicare le forme di “distanziamento sociale”, ma se le nostre comunità nazionali sapranno essere più unite, se sapranno promuovere l’interdipendenza tra i popoli e gli stati, per sostenere la cooperazione nella produzione e fornitura degli strumenti necessari a contrastare la malattia, per incentivare la comunità scientifica nelle ricerche per scoprire le possibili cure antivirali.
Questa non è una guerra, è una malattia. Alla fine non ci saranno vincitori e sconfitti, ma solo sopravvissuti.