Giulia Cecchettin. Il dolore di due padri, l’abisso e la (possibile) rinascita. Parla l’antropologo Pollo
Due padri di fronte a un dolore straziante: l’uccisione violenta di una figlia per l’uno; per l’altro l’improvvisa e crudele presa di coscienza di avere in casa il responsabile di quell’orrore. In questi giorni di profondo smarrimento e di tante parole abbiamo tentato una riflessione con l’aiuto dell’antropologo dell’educazione Mario Pollo
Due padri di fronte a un dolore straziante, piombato su di loro come un fulmine a ciel sereno: l’uccisione violenta di una figlia per Gino Cecchettin; per Nicola Turetta l’improvvisa e crudele presa di coscienza di avere in casa il responsabile di quell’orrore. Diverso, ma per entrambi atroce, difficile da sopportare. Come può un uomo e un padre vivere questa situazione senza lasciarsi travolgere? A quale compito è chiamato? E quale “lezione” può discendere, se possibile, da questa vicenda? In questi giorni di profondo smarrimento e di tante parole, abbiamo tentato una riflessione, senza la pretesa di voler insegnare qualcosa o avere le risposte pronte, con l’aiuto di Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.
Professore, il padre di Giulia ha affermato di non provare odio e in questi giorni, nonostante il dolore, si è sempre mostrato pacato e misurato nelle parole.
È bene, infatti, che il trauma di questa gravissima perdita non si trasformi in risentimento; non solo nei confronti di chi ha inferto la ferita, il che sarebbe umanamente comprensibile, ma anche nei confronti della società sulla scorta dell’“uomo del sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, di fronte ad un mondo avvertito ostile e colpevole di avergli sottratto le cose più care e preziose. Per il suo enorme potere distruttivo, su di sé e sugli altri, il risentimento è il peggior nemico che si possa avere. Il secondo punto è la necessità di un percorso di elaborazione della sofferenza e del lutto che porti alla cicatrizzazione della ferita ricevuta, ossia al riconoscimento e all’accettazione profonda dentro di sé della perdita subita. Un percorso da intraprendere possibilmente con il sostegno di qualcuno e che potrebbe arrivare a
trasformare l’amore che la perdita ha sottratto in amore da donare agli altri, in gentilezza, empatia, benevolenza verso il prossimo.
Il padre di Filippo non si dà pace per quanto accaduto. “Pagherà per quello che ha fatto. Noi siamo pur sempre i suoi genitori”, ha affermato.
Credo che il suo ruolo sia anzitutto quello di sostegno e accompagnamento del figlio, facendogli capire di essere sempre e comunque al suo fianco ma, al tempo stesso, aiutandolo a “chiarificare la colpa”, secondo il concetto di Martin Buber. La nostra cultura ha oscurato la capacità di riconoscere la colpa, introducendo al suo posto il senso di colpa che non è assunzione di responsabilità, bensì paura e angoscia per le conseguenze dell’atto commesso. La persona tende così ad elaborare una serie di attenuanti e, una volta scampate le conseguenze, non rimane nulla; invece
la colpa deve essere riconosciuta, illuminata e assunta pienamente; solo così è possibile in chi l’ha commessa lo sviluppo di un umano nuovo.
Credo che il padre di Filippo sia chiamato a questo compito, difficile ma fondamentale per un padre, che presuppone una relazione d’amore e di fiducia all’interno della quale si possa dire ad un figlio: “Tu hai la capacità, sia di assumerti la colpa, sia, partendo da questa colpa sofferta e assunta, di crescere, rigenerarti e ricostruire in te un umano nuovo”. Naturalmente anche attraverso l’espiazione, anch’essa necessaria all’evoluzione e alla rinascita della persona.
Riflettendo su questa vicenda, quale “lezione” può discenderne per i genitori e, in particolare, per i padri di figli maschi?
Le prediche non servono; un padre deve vivere, testimoniare l’insegnamento che tenta di trasmettere al proprio figlio, partendo anzitutto dal rapporto di complementarità con la propria moglie, madre del ragazzo, che consente un’esperienza di pienezza umana molto più ampia di quella che si potrebbero vivere da soli. Né il maschile, né il femminile sono di per sé autosufficienti, lo sono nella complementarità, che richiede alle donne di riconoscere il maschile che è in loro e di farlo crescere, e agli uomini di riconoscere il femminile che è in loro, entrarvi in contatto e svilupparlo.
Oggi, però, molte famiglie sono disfunzionali e tanti figli crescono assistendo alle liti dei genitori, talvolta a insulti e percosse.
Quando un uomo tratta la propria moglie da schiava cui imporre la propria volontà, crea purtroppo una sorta di imprinting nel figlio, che naturalmente tende ad identificarsi con la figura paterna – ammesso che questa figura sia presente perché nella maggior parte dei casi la filiera educativa oggi propone anche ai ragazzi figure essenzialmente femminili – e che molto probabilmente sarà portato a riprodurre questa modalità nella sua relazione con la donna.
L’educazione dovrebbe invece aiutarlo ad essere un uomo “vero”, consapevole della propria interiorità, rispettoso e responsabile nei confronti dell’altro.
Ma il figlio dovrebbe vedere il padre impegnarsi per primo in questo percorso: un padre che se buca una gomma si ferma, la cambia e riparte testimoniando che si può essere coerenti anche commettendo a volte degli errori, riconoscendoli e sforzandosi di cambiare. In questi casi può essere di grande aiuto per il figlio la frequentazione di luoghi di aggregazione costruttiva e di sane relazioni, come gruppi parrocchiali o legati all’associazionismo.