Fortezza e intelligenza politica: adesso è il momento di salvare l’Ucraina
È trascorso quasi un mese da quando le parole di Papa Francesco sono vibrate per esortare al coraggio di salvare, con fortezza d’animo e intelligenza diplomatica, il futuro del popolo ucraino. Nonostante le polemiche cromatiche sulle bandiere da issare e le posizioni che derubricano le tessiture prenegoziali della Santa Sede a una resa incondizionata, preferendo confidare nel messianismo delle armi promesse, i fatti si stanno incaricando di chiarire il significato di quella esortazione
È trascorso quasi un mese da quando le parole di Papa Francesco sono vibrate per esortare al coraggio di salvare, con fortezza d’animo e intelligenza diplomatica, il futuro del popolo ucraino. Nonostante le polemiche cromatiche sulle bandiere da issare e le posizioni che derubricano le tessiture prenegoziali della Santa Sede a una resa incondizionata, preferendo confidare nel messianismo delle armi promesse, i fatti si stanno incaricando di chiarire il significato di quella esortazione. A partire dall’impietoso affresco fornito sulla rivista Politico da alcuni alti ufficiali ucraini, altri analisti continuano ad affidare a talune testate dell’anglosfera la previsione di un tracollo entro l’anno. Un esito che, giunti a questa fase, non potrebbe essere evitato neanche se l’Occidente – raschiando il fondo – spedisse tutte le forniture richieste. La Russia, nel prendere le contromisure sui sistemi d’arma occidentali, ha ulteriormente sviluppato i propri. Resta il fatto che mentre i governi europei non possono dare ciò che non hanno, gli Usa (fedeli alla regola di conservare le scorte per due guerre simultanee) sono impegnati a rifornire Israele, Taiwan e militarizzare l’Indo-Pacifico, bastando a ovest il rilancio della Nato e il fossato tra Mosca ed Europa. Al che si aggiunge l’errore tattico di non essersi curati delle fortificazioni difensive, rendendo ora possibili i cedimenti del fronte in più segmenti, non previsti dal coordinamento britannico della fallita controffensiva.
Il rischio pare reale, se lo stesso Stoltenberg lancia l’ipotesi di congelare il campo, rinunciando provvisoriamente alle zone occupate per rafforzare Kiev in vista della futura riscossa.
A parte l’unilateralismo di simili piani privo di riscontri da Mosca, il nodo critico sta proprio nel continuare a concepire la guerra secondo una cifra di mera territorialità. La Russia, con la sua sterminata estensione, non necessita di altri lembi di terra. La radice – con cognizione di causa geostrategica – risiede invece nella posizione ucraina lungo la direttrice tra l’Artico, Mar Nero e Mediterraneo orientale sino alle proiezioni arabiche e africane. Iscritta in tale cornice, l’Ucraina si rivela il campo “neutro” (si fa per dire) in cui si disputano contese altrui.
Connettere l’invasione dell’Ucraina alla guerra aperta in Siria per rovesciare Assad significa tracciare il vallo del contenimento geostrategico concepito facendo del Baltico e del Mar Nero due laghi atlantici e rimuovendo a Damasco un regime disfunzionale alla convergenza tra Israele, le petrolmonarchie (vedi Accordi di Abramo) e l’Egitto di al-Sisi, necessaria al disimpegno Usa dall’area. Le stesse esercitazioni programmate per i prossimi mesi sono indicative: in Baltico, Mar Nero e Artico, quest’ultima a corredo delle nuove rivendicazioni statunitensi su isolotti al largo dell’Alaska, che estenderebbero il controllo su una rotta di capitale importanza tra Asia, America e Nord Europa, vista la riduzione della calotta glaciale. Si osservino poi le vicende in Georgia e ci si accorgerà dell’esatto calco ucraino, con riferimento alla secessione di Ossezia del Sud e Abkhazia da Tbilisi, maturata dopo un conflitto avviato nel 1991, condotto a più riprese e incancrenitosi con l’incapacità di Onu e Osce di disciplinare gli armistizi, sino all’intervento della Russia nel 2008, concomitante ai cenni sull’ingresso georgiano nella Nato.
Al contempo occorre riflettere sugli scopi di un’invasione del resto dell’Ucraina. Non si invade soltanto per annettere e occupare, ciò comportando vulnerabilità e costi inusitati, suicidi in assenza di variabili di garanzia. Specie se si tratta di una popolazione ostile su un territorio esteso come quello da Kiev a Leopoli, che non ha i caratteri delle regioni russofile investite dal 2014 da una guerra civile. Tanto più il ragionamento si presta per valutare la reclamata esigenza di armare a oltranza lo scudo ucraino, per proteggere dall’invasione un’Europa tuttavia armata e coperta dal dissuasivo automatismo nucleare. Ecco dunque che l’obiettivo della “smilitarizzazione”, dichiarato alla vigilia dell’invasione nel febbraio 2022, tutt’oggi chiarisce la volontà di continuare a combattere per evitare che l’Ucraina diventi l’ulteriore casamatta della Nato, mandando a vuoto chi – pur solo ora – ragiona di armistizio in termini (peraltro provvisori) di mera territorialità. Per averne conferma basta tornare alla bozza di accordo ricavata dai negoziati di Istanbul del marzo 2022, saltati per via delle prospettive di vittoria totale sul campo. E che per vari versi riproducevano i termini di Minsk: neutralità militare dell’Ucraina integrabile nella Ue e indipendenza (al tavolo di Minsk si parlava ancora di autonomia) degli oblast del Donbass. Condizioni discusse due anni e molte migliaia di morti fa, quando il paesaggio era molto diverso da quello dell’odierna Ucraina, cui si prospetta un domani di desolazione. Prendere atto di tutto questo è fondamentale, se non si vuole continuare a temporeggiare discettando su presupposti falsati, senza via d’uscita.
In questa luce e in condizione di superiorità militare si intuisce la volontà della Russia di avanzare macinando terreno lento pede, per imporre domani termini di scambio irrifiutabili, fermo l’obiettivo di escludere la formale integrazione dell’Ucraina nell’alleanza militare guidata da Washington. Nonché per logorare politicamente e materialmente il blocco euroatlantico che sostiene il nemico alle spalle, sottoponendogli una “desueta” guerra di trincea cui esso non è più pronto, anche per via di un’opinione pubblica indisponibile ad affrontare il massacro (il 74% nella pur russofoba Polonia, tanto per citare qualche dato).
Avanzare, in questo frangente, vuol dire anche consumare la tenuta interna del regime ucraino. Il dissenso cresce sulle divisioni che preesistono al febbraio 2022, come rilevato da analisti esenti da sospetta russofilia. L’episodio del reduce che giorni fa ha ucciso un adolescente nella metropolitana di Kiev per un alterco sulla guerra è soltanto un episodio emblematico. E si integra nel clima delle crescenti renitenze e fughe all’estero. Lo stesso dicasi per l’impopolarità della riforma della legge sulla leva, approvata dal parlamento ucraino assenti 130 deputati. Essa prevede la ferma senza limiti prefissati e l’abbassamento dell’età per lo scaglionamento dei dislocabili al fronte, aggravando sino alla soglia di un buco generazionale la fascia anagrafica più afflitta dal calo demografico che interessa il Paese dagli anni ’90. Inoltre introduce per i maschi emigrati da 18 a 60 anni l’obbligo di registrarsi negli elenchi militari dei consolati (pena l’esclusione perpetua dai servizi pubblici, in primis quelli sanitari). Il tutto esonerando i deputati che hanno esaurito il mandato a ottobre e che pertanto, secondo i detrattori, hanno viepiù interesse a prolungare la legislatura. Il prolungamento, in forza della legge marziale, riguarderà anche la carica presidenziale, in scadenza a maggio, con ciò precostituendo un ulteriore ostacolo ai negoziati: Mosca – che vuole trattare con Washington anziché per interposta Kiev – potrebbe eccepire l’illegittimità di Zelensky, rispondendo così al divieto di trattare che quest’ultimo si è imposto con decreto. Né servirà la conferenza di pace in Svizzera calendarizzata per giugno che, senza la presenza russa, preannuncia un’ennesima operazione cosmetica.
Non tutto è perduto, ma per riprendere il filo negoziale interrotto due anni fa, oltre alla comprensione effettiva della situazione, occorre qualche altro requisito. La guerra è dramma sin troppo serio per non esigere, in questa fase, una pulizia narrativa. Ciò significa rettificare una info war che, al pari di quella russa, sinora ha annebbiato le strade da percorrere in nome dell’immancabile vittoria nella lotta manichea contro il male demoniaco incarnato da una parte di mondo. Operazione controproducente se condotta propinando un’informazione mainstream così grossolana da incentivare l’incredulità, se non convinzioni di segno opposto. Propaganda che oggi celebra i due anni del mantra per cui “la Russia sta per crollare”. E che oggi ci parla di un’arma capace di indurre la cefalea nei governanti nemici a distanza di migliaia di km: indubbio progresso per coloro che ieri combattevano con i badili, vedevano i propri aerei abbattuti con i fucili da caccia e le colonne di carristi disperse invertendo i cartelli stradali, raccattavano denti d’oro e chip di lavatrici per assemblare armi. Nonostante la censura che preclude l’apprezzamento delle posizioni dell’avversario, è improbabile che le versioni dell’informazione russa siano state più veridiche. Da chiunque provenga, l’inquinamento cognitivo, oltre a disorientare l’opinione pubblica, tesse una trama narrativa che rischia di imprigionare non solo i suoi estensori ma anche – per dovere di coerenza – anche le scelte dei decisori reali.
Requisito essenziale è tuttavia fare i conti con l’interesse del popolo ucraino, senza cercare una exit strategy soltanto strumentale, quale potrebbe essere per l’Europa investire sul riarmo prefigurando il neoisolazionismo trumpiano, eleggendolo a vettore economico per chi, come nel Triangolo di Weimar, si candida a guidare il rilancio del complesso militare-industriale. Il tutto mentre Bruxelles insiste ancora sul postulato dell’austerità, da attuare mediante tagli alla spesa sociale e privatizzazioni senza compensare tassando i colossi dei fondi finanziari, pur funzionali a riversare miliardi di euro nelle commesse del comparto armamenti.
Ma curare gli interessi reali della nazione ucraina può voler dire anche sottrarla alla disperazione dell’abbandono. Al punto di vedere il governo di Kiev agitare lo spettro di un catastrofico all in, minacciando stimoli escalativi tali da produrre un allargamento in cui trascinare l’Occidente inadempiente. E così avvicinarsi alla logica del “tanto peggio tanto meglio” che si insinua in chi si vede perduto, senza alternative al tracollo totale. Dalle pagine del Washington Post, mentre Mosca insiste nel guardare a Kiev per la matrice ibrida della strage prezzolata e non suicida al Crocus, Zelensky afferma che, se lasciata sola, l’Ucraina si sentirebbe autorizzata a colpire la sicurezza nazionale della Russia. Un messaggio diretto ad amici e nemici, che precede l’incendio della corvetta a Kaliningrad, l’exclave ipermilitarizzata sul Baltico, dal 2018 affollata di vettori nucleari. Come pure gli ultimi attacchi alla centrale di Zaporizhzhia occupata dai russi dal marzo 2022, alla presenza degli osservatori Aiea. I servizi ucraini respingono l’addebito parlando di autosabotaggio, se non fosse per la divulgazione sulla tv pubblica della mappa che illustra come, in caso di incidente sotto vento da ponente, le nubi radioattive investirebbero il Donbass e gli oblast russi oltre confine, lasciando indenni i territori amministrati da Kiev.
Anziché attardarsi nel deprecare o giustificare la strategia della disperazione, quel che urge è salvare l’Ucraina dal vicolo cieco preservandone il futuro, così come si sottrarrebbe un amico da una rissa che lo vedrebbe soccombere, anziché incitarlo da dietro a farsi massacrare. Se davvero si tiene a lui. Questo comporta convincersi che distruzione e desolazione non vengono cancellate dalle rappresentazioni virtuali, giacché la guerra non è questione di tifoserie. Senza confondere la comprensione dei fatti banalizzando chi cerca instancabilmente di rimediare alla sciagurata assenza di un terzo effettivo: come insegnano gli studi basici in seno alle scienze della pace, esso è un elemento irrinunciabile alla mediazione compositiva dei conflitti che non si vogliano concludere con l’annichilimento finale della parte (appunto) incondizionatamente sconfitta.
Tutto ciò potrà disturbare e risultare irricevibile, laddove ci si sia assuefatti al bellicismo che pretende di risolvere violenza con violenza. Ma il Santo Padre, nell’ultima udienza, parlando della virtù della fortezza, l’ha spiegato in modo inequivocabile: “Un cristiano senza coraggio, che non piega al bene la propria forza, che non dà fastidio a nessuno, è un cristiano inutile”. Utile è invece sostituire strategie di vita a quelle che incancreniscono i conflitti di lunga durata predisponendone ulteriori, con l’illusione che la salvezza stia nel combattere fino all’ultimo sangue. Ucraino, in questo caso ça va sans dire.Giuseppe Casale