Coronavirus Covid-19. Padre Cencini: “Essere uomini e donne di speranza, attenti agli altri, aperti al mistero della vita e della morte”
Non è affatto scontato che la dura esperienza della pandemia da Coronavirus ci faccia cambiare perché "cambiare costa". Tuttavia "è da stolti" mantenere "stili di vita irresponsabili ed egoisti" e continuare a correre "in una lotta frenetica contro il tempo, in un mondo segnato dall’eccesso". Preferibile "accogliere l’idea del mistero o di una dimensione non del tutto gestibile dall’uomo". Parla p. Amedeo Cencini, psicologo e psicoterapeuta, membro del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei
Un nemico invisibile, ma pericolosissimo, ha improvvisamente fatto irruzione nelle nostre vite scombinando i nostri piani, sconvolgendo abitudini e stili di vita e mettendo brutalmente a nudo la nostra fragilità e impotenza. Ora i giorni più difficili sembrano passati ed è tempo, pur con estrema prudenza e senza fughe in avanti, di ripartire gradualmente. Ma è importante fare tesoro della “lezione” ricevuta. Ad esempio “imparando a essere uomini e donne di speranza, grati per ciò che si riceve e consapevoli di quanto si può dare; in pace con sé, con gli altri, con la natura, con Dio; attenti all’altro”. Ne è convinto il sacerdote canossiano Amedeo Cencini, psicologo e psicoterapeuta, membro del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei.
Padre Cencini, la pandemia ha certamente rappresentato una crisi, una cesura rispetto alla vita e al modo di pensare di prima.
Sì, è una cesura, ma non illudiamoci. Molte volte abbiamo detto dopo particolari eventi, catastrofi naturali, crisi sociali: “Nulla sarà come prima”, ma poi siamo riusciti a tornare allo stato e allo stile di vita precedenti, ovvero a pensare (o illuderci) di cambiare tutto perché tutto resti come prima. Non è facile cambiare, ci costa cambiare, anche di fronte all’evidenza della necessità di farlo. Dunque non diamolo per scontato. Dovrà passare un certo tempo; soprattutto dovremo capire come singoli e come comunità che non abbiamo alcun interesse a tornare a una certa cosiddetta normalità, perché proprio quella normalità è un problema; e convincerci che, ad esempio,
è da stolti continuare con certi stili di vita irresponsabili ed egoisti; che non possiamo continuare a correre e correre (ma verso dove?), in una lotta frenetica contro il tempo, in un mondo segnato dall’eccesso, ove tutto è troppo veloce e rumoroso; e che è saggio esser disposti ad accogliere l’idea del mistero o d’una dimensione comunque non del tutto gestibile dall’uomo.
Le rianimazioni in affanno, l’eroismo dei sanitari, i decessi in solitudine, le colonne di mezzi militari che trasportavano bare: immagini incancellabili per gli occhi e per il cuore. Che cosa può o dovrebbe averci insegnato questa drammatica esperienza per la nuova fase di ripartenza?
In tempi in cui la vita conta sempre meno, la morte è sempre più tenuta lontana e nascosta, e si muore sempre meno in casa, questa esperienza ci fa forse riscoprire un nuovo rapporto con entrambe: vita e morte.
Anzitutto ci provoca a rimettere al centro la vita umana, il suo senso, il suo valore, la dignità di ogni essere umano… E forse pure della morte e del suo mistero.
Probabilmente mai come in questa vicenda abbiamo vissuto lo strano fenomeno della “sottrazione della morte”, della morte dei nostri cari. È terribile morire soli, è triste non poter stare loro vicini in quei momenti. Ed è significativo che le due realtà, vita e morte, siano così legate tra loro: se perdiamo il senso dell’una smarriamo anche l’altra (e viceversa).
La reclusione in casa – convivenza forzata e a volte faticosa – che cosa ci ha invece fatto riscoprire? Che lezione ci dà per il “dopo”?
Qui la lezione è stata più semplice o meno sorprendente, almeno all’apparenza, poiché abbiamo vissuto qualcosa che sapevamo già, la fatica della relazione, specie quelle più abituali o con chi ci è più vicino. Ma ci ha pure fatto capire, al di là dei luoghi comuni, che una relazione per continuare nel tempo deve passare attraverso dei passaggi fondamentali: il rispetto dell’altro in quanto altro e diverso da me, oltre ogni tentativo di omologazione, l’amore basato sull’accoglienza incondizionata e non interessata dell’altro, la scoperta del mistero del tu, che è sempre oltre e più di quel che io penso d’aver capito di lui, e – per un credente – la scoperta del Mistero nell’altro, che è sempre mediazione della presenza di Dio. In tal senso, e con la chiusura delle chiese,
molte famiglie cristiane hanno riscoperto il valore e la sacralità della famiglia come luogo persino liturgico, come tempio sacro, come chiesa domestica.
Un termine molto usato – e abusato – in queste settimane è “resilienza”. In che modo ci può aiutare?
In tempi come i nostri che non sono certamente tempi eroici o di grandi sfide e passioni, o in cui sembra smarrita la possibilità di fare scelte “per sempre”, “resistendo”, siamo stati bruscamente provocati a interrogarci sul nostro modo di affrontare le inevitabili difficoltà della vita (specie quelle relazionali). Non basta, infatti, resistere e rimanere. C’è chi lo fa, e non viene meno alla parola data o al contratto stipulato (compreso quello coniugale), ma senza farsi cambiare o convertire dalla crisi che sta attraversando, semplicemente si ripete o si ricicla, magari ricordando con nostalgia l’amore d’un tempo. Sarebbe il perseverante. C’è invece chi vive le fatiche del rapporto come stimolo a cambiare, a cercare e trovare un nuovo modo di amare l’altro, perché la vita e l’amore sono fatti di stagioni, e a trovare nuove motivazioni per decidere di stare accanto alla persona che ha scelto: costui è colui che è fedele.
E la fedeltà è sempre creativa. Questa è la vera resilienza.
C’è il rischio che il distanziamento “sociale” crei anche lontananza relazionale? A volte siamo portati a guardare l’altro con sospetto, come pericolosa possibile fonte di contagio…
Sì, il rischio è reale, ma non scontato. Normalmente guarda l’altro con sospetto chi non è del tutto in pace con se stesso, col suo passato, coi suoi limiti e ferite, chi non ha stima di sé. In tali casi la persona trasferisce, di solito senza accorgersene, la sua sensazione di disagio interiore all’esterno, con l’impressione così di gestirlo meglio. Ecco perché chi non è abbastanza integrato dentro di sé (o non ha accolto benevolmente la propria realtà in tutti i suoi aspetti) tende a esser disintegrante nella relazione, o a vivere rapporti “contagiati” da sospetto, diffidenza, pregiudizi duri a morire (è lui il vero contagiatore).
Con che spirito, allora, affrontare la “fase 2” sapendo che non sarà più come prima?
Mostrando d’aver capito almeno un po’ la lezione perché davvero la realtà cambi e non continui tutto come prima. Ad esempio
imparando a esser uomo di speranza, non del sospetto; uomo che vive con responsabilità le relazioni, grato per quel che riceve, e consapevole di quanto può dare; in pace con sé, con gli altri, con la natura, con Dio; attento all’altro perché nessuno soffra solo o con la sensazione di soffrire invano; aperto al mistero, della vita e della morte, di sé e dell’altro, dell’amore e del dolore. Anche di questo dolore.