Che vita… sui social. Più siamo soli, più ci rifugiamo nel "buco nero" dei sogni virtuali
In una società che al centro mette sostanzialmente l'individuo i social diventano una sorta di specchio nero dove rifugiarsi, elaborare le proprie frustrazioni e cercare riferimenti gratificanti.
Qualche giorno fa Hopper HQ (https://www.hopperhq.com), un sito che si occupa di analisi e monitoraggio dei social media ha pubblicato la lista dei 100 profili Instagram più redditizi al mondo. Tra i nomi noti troviamo attrici, starlette, calciatori, popstar e ballerini. Al primo posto fra i più seguiti in Italia, svetta la nota influencer Chiara Ferragni che nella classifica mondiale, invece, è “soltanto” 65esima.
Ma perché questi profili social sono diventati veri e propri strumenti di marketing e come mai i brand sono così interessati a investire denaro in questa forma di pubblicità non convenzionale?
In realtà il fenomeno è piuttosto complesso e negli adolescenti si intreccia profondamente con il processo di affermazione e di autoidentificazione dell’Io.
In una società che al centro mette sostanzialmente l’individuo i social diventano una sorta di specchio nero dove rifugiarsi, elaborare le proprie frustrazioni e cercare riferimenti gratificanti. Accade quindi che un profilo Instagram di un emerito sconosciuto possa diventare un interlocutore privilegiato nelle dinamiche interiori e di scambio dei giovani.
Così postando quotidianamente foto o video, commenti e tag e soprattutto azzeccando il filone giusto degli argomenti proposti, si può diventare dei piccoli profeti, o incantatori del pubblico dei teen ager.
Su Yotube poi fioriscono i cosiddetti youtuber: coetanei dei nostri figli, “ragazzi della porta accanto” o giù di lì, che propongono contenuti spesso legati al mondo virtuale, come i videogiichi. Questi ultimi sono in un certo senso più ineffabili per noi adulti. I loro video ci appaiono spesso incomprensibili e farciti non di rado di espressioni scurrili, quindi da biasimare. Le aziende produttrici ragionano in termini economici: li individuano in base al numero di follower o alle visualizzazioni e li trasformano in testimonial 2.0 del proprio brand.
Si guadagnano cifre iperboliche a fare l‘influencer e tra i ragazzi questa attività viene identificata come una vera e propria professione.
Per capire le dinamiche che si stabiliscono fra follower e influencer possiamo paragonare la situazione a quella di un film o di una serie che ci piace, dove in maniera spontanea fra spettatore e protagonista si sviluppano una forte empatia e un senso di rispecchiamento.
Naturalmente si tratta di una relazione asimmetrica, chi “segue” non agisce, al limite emula.
Può anche accadere che l’influencer di turno scateni e catalizzi sentimenti di odio, a volte anche persecutori. La rete pullula di haters (odiaori) pronti a sputare veleno e a insultare e fra questi troviamo molti adolescenti.
Il fenomeno dell’identificazione “virtuale” è comunque in evoluzione. Ci si avvia verso nuove frontiere “futuristiche”. Basti pensare al gettonatissimo profilo social di Lil Miquela, una diciannovenne di origine brasiliana che conta oltre due milioni e mezzo di follower su Instagram.
Ha le lentiggini, i capelli fluenti e sempre perfetti, un fisico da modella e un viso aggraziato. Scrive post, partecipa agli eventi, è “brandizzata”. Peccato che non esista davvero.
Non si tratta di un robot, come si potrebbe ipotizzare, ma di una creazione grafica. “Per lei” lavora un nutrito team di persone. È un business in piena regola. Studiatissimi il look, le pose, gli ammiccamenti, i contenuti.
Insomma i nostri ragazzi sono pronti ad affidare sogni e desideri a una bambolina di “carta”. Chissà perché…
La risposta più immediata può essere facilmente rintracciabile in un diffuso desiderio di fuga dalla realtà, dalle responsabilità , dalle frustrazioni, dal dolore. Tutti aspetti del nostro vivere quotidiano nei confronti dei quali appariamo sempre più indifesi. La realtà poi è angosciante e fa paura.
Soprattutto questi sentimenti evidenziano sempre più il vuoto che abbiamo attorno e che i nostri figli percepiscono chiaramente.
Il senso della solitudine prende alla gola. Più siamo soli, più ci rifugiamo nel “buco nero” dei sogni virtuali con l’illusione di non svegliarci mai più.