Che cosa si nasconde dietro a uno stupro. Il caso del calciatore del Padova Michael Liguori interroga
Il caso di Michael Liguori è di quelli che fanno tolgono il sonno di notte. Giovedì 10 ottobre, il calciatore del Padova è stato condannato in primo grado a 3 anni e 4 mesi di reclusione per lo stupro di una minorenne, ma pare che questo fatto non porterà la società a prendere provvedimenti disciplinari nei suoi confronti.
Contro la presenza in campo di Liguori, martedì scorso si è schierata l’assessora alle politiche educative e scolastiche del Comune di Padova, Cristina Piva, che ha parlato di «vergogna per la città». Di certo, la vicenda ha avuto un’eco mediatica tale a causa del mestiere che fa Liguori. E va detto che l’attaccante classe 1999 è in folta e cattiva compagnia. Proprio nel giorno della presa di posizione di Piva, i giornali rendevano noto che a essere indagato per stupro in Svezia è niente meno che il fuoriclasse francese del Real Madrid Kylian Mbappe. A finire sotto processo per fatti simili sono stati anche i brasiliani Robinho e Dani Alvez, mentre in Italia si è molto discusso del centrocampista Manolo Portanova, anche lui condannato per violenza sessuale nel 2022, quando giocava nel Genoa e, nonostante non venisse più convocato per le partite, frange della tifoseria genoana aveva protestato anche per la sua permanenza all’interno dello spogliatoio rossoblù. Nel 2020, per restare in Veneto, cinque calciatori della Virtus Verona sono stati coinvolti in un caso di violenza sessuale di gruppo, sono stati condannati in primo grado a sei anni per aver abusato di una ventenne durante un «gioco di carte alcolico». Potremmo discutere a lungo sul dilemma “garantista”: è giusto che la giustizia faccia per intero il suo corso, nei tre gradi di giudizio – come hanno deciso di fare il presidente del Padova Peghin e l’amministratore delegato Alessandra Bianchi – o è necessario che una società sportiva prenda subito provvedimenti, anche in virtù della presa che i calciatori hanno sui più giovani e dell’esempio che – volenti o nolenti – danno ai tifosi più piccoli? Se consideriamo che per saltare una o due partite, nel calcio di oggi, basta anche “solo” una protesta vibrante e reiterata contro l’arbitro, viene difficile comprendere come si possa “passare sopra” a una condanna penale per un atto odioso come lo stupro. Certo, non è un fatto di campo e non si tratta di soverchiare la Giustizia emettendo sentenze definitive di colpevolezza anzitempo. Eppure, crediamo che il mondo del calcio non possa voltarsi dall’altra parte ma dare segnali importanti di fronte a vicende gravi. Anche perché casi come quello di Liguori, al di fuori dei riflettori, ne avvengono quotidianamente a carico di giovanissimi. C’è quindi un secondo dilemma, forse ancora più urgente del primo: che cosa spinge giovani – per di più di successo in uno sport che appaga in termini di visibilità e di guadagni – a lasciarsi andare ad atti così gravi? Si potrebbero riprendere le parole dell’antropologo Mario Pollo che, commentando un altro grave fatto di cronaca (il suicido di un 15enne di Senigallia vittima di bullismo), ha spiegato come siamo di fronte a un vulnus educativo che ha portato alla rottura del patto sociale persona-comunità, alla mancanza di un’educazione all’interiorità e ha parlato di iper individualismo, mancanza di senso e derive nichilistiche: «Quando educhiamo a costruire relazioni autentiche con gli altri?», si è chiesto. Ma c’è un’altra domanda da porci: quali bisogni repressi manifestano questi giovani con atti così violenti e riprovevoli? Che cosa manca loro, che tentato di prendersi abbandonandosi a questi istinti predatori? Sabato 12 ottobre a Zelarino (Ve) il Servizio regionale tutela minori della 15 Diocesi del Triveneto ha promosso il convegno “Uso e abuso della rete. Prevenire e tutelare: quali strategie educative?”. In quel contesto il prof. Mauro Berti ha riconosciuto come le tecnologie digitali stiano minando il dialogo familiare e sociale, abbassando la conoscenza delle parole e quindi la capacita di esprimere pensieri e sentimenti. È fondamentale che genitori, educatori, allenatori si costituiscano come ostacoli nella deriva verso la «solitudine digitale».