A sei mesi dal Diluvio al-Aqsa: Israele teme l’isolamento e lancia messaggi
Oggi il vento della guerra israelo-iraniana torna a spirare. I missili con cui l’aviazione israeliana ha colpito l’ambasciata iraniana a Damasco configura un atto di guerra
Sono trascorsi sei mesi dal Diluvio al-Aqsa scatenato da Hamas. Già il 7 ottobre si levarono voci per accusare l’Iran, invocando l’attacco contro il mandante. Oggi il vento della guerra israelo-iraniana torna a spirare. I missili con cui l’aviazione israeliana ha colpito l’ambasciata iraniana a Damasco, facendo tra le vittime Reza Zahedi, generale delle Guardie della Rivoluzione, configura un atto di guerra, in violazione delle norme internazionali sulle residenze diplomatiche di uno Stato sovrano. La Repubblica islamica, disperando in sanzioni e condanne, promette un’inevitabile ritorsione. È pur vero che lo fa con la consueta formula, ossia riservandosi di scegliere modi e tempi della reazione. Il che, in passato, si è tradotto nell’affidarsi alle azioni asimmetriche dell’Asse della Resistenza cui afferiscono gli yemeniti di Ansar Allah e soprattutto Hezbollah. L’Iran non vuole lo scontro frontale con Israele, che si tirerebbe dietro gli Usa. D’altronde non può incassare senza colpo ferire, suggerendo debolezza. Tel Aviv sa bene tutto ciò, sicché ha disposto l’allerta per gli obiettivi sensibili all’estero e chiuso le sedi diplomatiche in 30 Paesi in occasione della Pasqua ebraica.
Tuttavia, nelle pieghe degli strali iraniani estesi alle responsabilità statunitensi, è presente la dichiarazione che invita Washington a non cadere nella trappola israeliana, proprio mentre i servizi notificano la soppressione dell’ennesima cellula Isis in procinto di attentato. Dal canto suo, per bocca di Kirby, la Casa Bianca ha assicurato di non volere la guerra con Teheran, dicendosi all’oscuro dell’attacco: un registro del tutto diverso da quello con cui gli Usa si intestarono la regia del drone che nel 2020 assassinò il generale pasdaran Soleimani di passaggio a Baghdad.
Questo, assieme ad altri elementi circostanziali, concorre a tracciare un’ipotesi per spiegare il motivo del raid su Damasco, che si accompagna a nuovi bombardamenti sulla Siria, in un frangente già così infuocato. Serve soprattutto cogliere l’impasse che affligge il governo israeliano. A motivare l’attacco, infatti, non giova l’esigenza di interrompere il sostegno dell’Iran a Hezbollah: per essa non basta uccidere un generale, oltretutto colpendo un’ambasciata e non un obiettivo logistico. Occorre piuttosto ampliare lo sguardo sulle recenti rimostranze di Tel Aviv verso Washington, verbalmente (le forniture d’armi non sono cessate) più “tiepida” nel sostegno a Netanyahu: si vedano il freno sull’operazione di Rafah e l’astensione che ha permesso all’Onu di adottare la risoluzione sul cessate il fuoco nel Ramadan e sugli aiuti umanitari.
La Casa Bianca ha buone ragioni per raffreddare l’appoggio che, se non incondizionato, viene letto da Tel Aviv al pari di un tradimento. Presidenziali in vista, essa deve fare i conti con un elettorato mai così critico verso Israele. Inoltre le stragi di Gaza stanno spuntando lo stigma dell’antisemitismo usato per inibire le denunce dei crimini compiuti in nome della causa sionista. Soprattutto, Israele sta ostacolando il disimpegno dal Medioriente pianificato da tempo dagli Usa, date l’impossibilità di continuare a onorare l’autoinvestitura a gendarme mondiale e l’esigenza di risparmiarsi per concentrarsi sulla sfida multipolare rappresentata da Cina & Co. Nel mentre l’impopolarità di Israele si fa contagiosa, specie nei 2/3 del mondo che non guarda con simpatia all’eccezionalismo Usa e alle crociate dall’egemonia unipolare, mal digerendo le contraddizioni di un’egemonia che consente a sé e ai suoi gregari licenze per altri intollerabili, non di rado attirandosi la taccia di protervia suprematista che seleziona i regimi altrui (autocratici o democratici che siano) in ragione della loro strumentalità.
Da parte sua Israele sa che la “conversione” Usa vorrebbe dire perdere la sponda di chi, dissimulando imbarazzo, finora ha seguito la linea di Washington solo per obbedienza. Nel frattempo Netanyahu deve affrontare anche con i mezzi della repressione e della censura (per reati d’opinione) le proteste interne, riconoscendosi in un vicolo cieco: da un lato è evidente a chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale che sradicare Hamas non è l’obiettivo plausibile della condotta genocidaria a Gaza; dall’altro sospendere l’operazione equivarrebbe ad ammetterne il fallimento ovvero a confessare la gratuità delle stragi. In questo stallo strategico, una pur larvata delegittimazione ab extra da parte Usa varrebbe non solo a materializzare l’incubo del totale isolamento, ma anche a fomentare la delegittimazione interna avvalorata dagli apparati.
In questa cornice aggredire l’Iran per agitare lo spettro dell’allargamento regionale del conflitto confeziona un messaggio agli Usa: un segnale di ciò che rischierebbero se smettessero di coprire le spalle di Israele senza se e senza ma, trovandosi costretti a intervenire, laddove Teheran fosse indotta a imbracciare le armi. Washington non potrebbe restare a guardare l’effetto domino disastroso per i suoi interessi geostrategici in un’area all’incrocio fra Asia, Africa ed Europa.
Il timore dell’isolamento esaspera l’antica sindrome dell’accerchiamento, che oggi suggerisce di agire senza remore: al punto che, nonostante la recente risoluzione Onu – come già la Corte dell’Aja – abbia ingiunto l’accesso nella Striscia di Gaza degli aiuti umanitari, tre veicoli della ong statunitense Wck sono stati centrati uno dietro l’altro (il secondo mentre soccorreva i sopravvissuti del mezzo di testa) in un transito addirittura già concordato con i militari Idf.
Ma sono azioni come queste ad accrescere la misura dell’isolamento che Netanyahu si è già autoinflitto. Ragione per cui c’è da auspicare che il governo di Tel Aviv non diventi un bolide fuori controllo, avvitandosi in una dinamica che genera ciecamente proprio ciò che teme, trovando amici e nemici viepiù concordi nel non farsi trascinare nell’abisso.
Giuseppe Casale*
*Pontificia Università Lateranense