Verso le presidenziali Usa: tra affanni interni e nuovi focolai del disordine internazionale
Entrambi gli ottuagenari hanno mancato di tracciare una visione strategica sul futuro
In un mondo in cui le interdipendenze non sono soltanto di tipo economico, i deficit interni dei principali protagonisti si rifrangono nei focolai di disordine che divampano nelle più varie latitudini. Talvolta la concomitanza degli eventi in cronaca si incarica di ricordarcelo senza richiedere particolari sforzi interpretativi.
Il duello televisivo tra Biden e Trump non ha smentito le aspettative, nonostante l’ingaggio di conduttori in odore di anti-trumpismo. La resa disastrosa per il primo ha spinto i più maliziosi a spiegare l’anticipo del confronto in tv con l’intento della corrente obamiana di ottenere il ritiro di Sleepy Joe prima della convention dem. Ma anche Trump è apparso meno brillante del solito. Entrambi gli ottuagenari hanno mancato di tracciare una visione strategica sul futuro. La loro opacità è forse icona dell’erosione del progetto unipolare, sempre più volto a manovre di retroguardia, non sostenuto dalla spinta economica, dall’incontestabile primato militare e dalla coesione di una nazione visibilmente stanca, nei suoi settori più vulnerabili, di sostenere i costi di un’egemonia non più scaricabili all’esterno. Tanto più in un frangente in cui il profilo dell’alternativa multipolare consente agli alleati non occidentali di sfuggire a un rapporto di fedeltà olistica e totalizzante, potendo affiliarsi selettivamente e settorialmente ad altri attori: vedi le candidature Brics di Turchia e Arabia Saudita, tanto per citarne alcuni.
La perdita di smalto ha riflessi geopolitici di varia specie. Tra essi, l’incapacità di disciplinare i sodali e di subire i contraccolpi della loro violenta assertività: Israele ne è esempio lampante, data anche la difficoltà di tacitare le voci che a Tel Aviv premono per allargare il conflitto a Libano e Iran, rischiando l’esplosione di una polveriera che distruggerebbe del tutto il disegno di gestire il Medioriente da remoto.
I riverberi della crisi investono il terreno di diverse delle destabilizzazioni locali, dove spesso le rivalità domestiche intersecano il filo spezzato di decolonizzazioni incompiute, profittando delle “distrazioni” dei grandi attori. L’ultimo riscontro è stato dato pochi giorni fa dalle rivolte in Kenya, sebbene la Casa Bianca abbia appena promosso il governo di Nairobi a partner speciale nell’area, a “premio” della sua stabilità e degli allineamenti alle ricette del Fondo monetario internazionale. Ma è stata proprio la ricezione della riforma fiscale dettata dal Fmi a scatenare la piazza pochi giorni fa, provocando l’assalto al parlamento, con scontri (e relative vittime) animati da una folla di giovani che promette di proseguire inneggiando all’emancipazione nazionale.
A stretto giro, il tentato golpe militare in Bolivia ha rinverdito la prassi latinoamericana dei colpi di mano contro governi socialisti. Non è chiaro se si tratti di una messinscena per rafforzare il presidente Arce, di una vertenza interna agli apparati o di un avvertimento eterodiretto contro il Paese, altro candidato Brics, commercialmente vicino a Mosca e Pechino e strategicamente importante nell’odierna transizione energetica giacché quarto estrattore mondiale di litio. Comunque sia, sommando le situazioni in Messico, Colombia, Haiti ed Ecuador, non è un buon segnale per la tenuta della Dottrina Monroe, che da due secoli esatti postula il controllo esclusivo sul vicinato continentale.
Alla luce della sfida con la Cina nel Pacifico, Washington non può disinteressarsi neanche delle frizioni che impegnano Parigi in Nuova Caledonia, residuo dei domini oltremare dove cova l’iniziativa insurrezionalista degli indigeni Kanak, già esplosa a maggio contro la gendarmeria a motivo della legge varata per assegnare – in violazione degli accordi del 1998 – il diritto di voto ai residenti francesi, al fine di vanificare il prossimo referendum sull’indipendenza. Il fatto che l’Eliseo accusi l’Azerbaigian – longa manus della Turchia che contende alla Francia l’influenza nel Mediterraneo – di sostenere le proteste è un’ulteriore traccia dell’affanno Usa nell’arbitrare i rapporti tra i suoi gregari.
A poco vale volgere lo sguardo sugli affanni altrui. Se l’astensionismo al 60% nelle presidenziali iraniane suggerisce una delegittimazione implicita, quello alle elezioni europee (con percentuali eguali o peggiori in 12 Paesi su 27, scontando gli Stati dove il voto è obbligatorio) può essere davvero interpretato come una passiva fiducia nel sistema da parte della “maggioranza silenziosa”? Soprattutto, basterà la foglia di fico di tale consunto argomento per giustificare l’elusione delle urne che si profila alle presidenziali Usa, sommando i dem delusi dalle mancate riforme e dalle posture estere bideniane e l’elettorato conservatore intimidito dal trumpismo? Ai custodi del “giardino ordinato” occidentale si impone una seria considerazione dei tempi nuovi, in cui serve soppesare le conseguenze sistemiche delle proprie opzioni, sapendo che non esistono più isole protette da burrasche apparentemente lontane.
Giuseppe Casale*
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense