Terra Santa. Lo sguardo di suor Giovanna Sguazza sul conflitto tra Israele e Hamas. «I popoli vogliono la verità»

Betania Lo sguardo di suor Giovanna Sguazza sul conflitto tra Israele e Hamas, tra buona gente stanca di ogni sopruso e una raccomandazione: «Raccontate la verità dal 1948 a oggi»

Terra Santa. Lo sguardo di suor Giovanna Sguazza sul conflitto tra Israele e Hamas. «I popoli vogliono la verità»

La missione l’ha portata in ogni angolo del mondo. E oggi la missione la vuole lì, fisicamente, sul confine che separa i popoli e ingigantisce l’odio secolare, per essere, ancora una volta, un ponte, un segno di vita visibile e accogliente contro la logica degli attentati, della violenza, delle bombe. Come Difesa del popolo avevamo salutato suor Giovanna Sguazza, missionaria comboniana classe 1945, cinque anni fa, nel luglio del 2018. Dopo aver trascorso decenni tra Sud Sudan e Stati Uniti, allora la religiosa si apprestava a lasciare, dopo alcuni anni, il Centro mondo amico del quartiere Mandria, gestito con Caritas diocesana di Padova per le donne in difficoltà, e aprire una nuova fase della sua vita in Terra Santa, a Betania, tra i pellegrini, i cristiani e la gente di ogni fede del posto. È sabato mattina quando ci mettiamo in contatto con suor Giovanna. A pochi metri dal muro che separa Israele da Palestina e Giordania, la connessione internet, già solitamente rallentata, è ancora meno stabile. Passiamo ai messaggi vocali. «Nutro una grande gratitudine per il fatto di poter vivere nella terra dove si è formata la comunità di Gesù – ci racconta – poiché sono anziana, e in Israele non è possibile lavorare a questa età, la mia è una presenza di volontariato». Due gli obiettivi principali dell’attività di suor Giovanna: la comunità degli immigrati cattolici, venuti in Israele per lavorare da Europa, Asia e America e poi la piccola ma significativa realtà del vicariato di San Giacomo, composto da cattolici di lingua ebraica che pregano e celebrano nella lingua ufficiale dello Stato di Israele. Un ponte sul confine. «La nostra residenza è proprio accanto al muro di separazione e di apartheid della West Bank (Cisgiordania) che divide i popoli. Abbiamo assunto questo essere realtà di confine nella nostra presenza comboniana per essere ponte, un ponte tra realtà vicine ma lontanissime, un segno di presenza che vuole comunicare il fatto che noi viviamo qui e sentiamo sulla nostra pelle la sofferenza dei due popoli». Suor Giovanna racconta dei sassi e delle bombe lanciate dai giovani palestinesi oltre il muro, ma racconta anche la risposta militare di Israele, dei meticolosi controlli di chiunque chiede di passare: «Vediamo con i nostri occhi l’oppressione e la discriminazione che avviene quotidianamente. C’è un gruppetto di soldati che ogni sera viene da noi per un controllo: entra in casa, fa il giro, ispeziona». E ogni sera, nei vespri, «preghiamo sempre per i due gruppi, perché ritrovino la pace nella verità e nella giustizia, perché ci sia l’incontro e non lo scontro». E questa era la normalità. Poi, il 7 ottobre, giorno degli attentati e delle carneficine di Hamas, tutto è cambiato. «Quella mattina eravamo già occupate con il nostro asilo, dato che la sera precedente erano andati bruciati il tetto e la parte dei giochi. Mentre piangevamo con le maestre per questa ennesima distruzione, abbiamo sentito le sirene di allarme. Non vi abbiamo però posto attenzione, dato che si sentono ogni tanto, ma non potevamo pensare a eventi così tragici. Quando nel pomeriggio abbiamo capito cos’era successo, ci siamo ammutolite tutte. E siamo rimaste a casa a pregare. I nostri dipendenti musulmani hanno condannato Hamas, ci dicono che questa violenza è dannosa in primis per i musulmani stessi». Dopo alcuni giorni di lockdown generalizzato, la vita è ripresa pian piano nella parte orientale del Paese, anche se mancano i pellegrini. Suor Giovanna Sguazza e le sue consorelle hanno scelto di tenere spenta la televisione: «Ci siamo fatte un proposito di non ascoltare i media. Ascoltiamo invece la gente che conosciamo, palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani ed ebrei, ma ascoltiamo soprattutto la guida del cardinale Pizzaballa che ci sprona a essere donne e uomini del Vangelo, per stare con la Parola di Dio e con essa confortare chi abbiamo accanto». In questa oscurità il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, è stato un faro: «Le sue parole sono fonte di speranza. Nei giorni scorsi abbiamo pregato alla Terra Santa School e ancora una volta ha invitato le comunità cristiane a perdonare a essere agenti e costruttori di pace, ma anche a conoscere bene tutta la storia di questa terra». Ma la speranza cammina anche sulle gambe di tanta buona gente «con la testa a posto» che suor Giovanna incontra ogni giorno, di ogni provenienza e di ogni fede, stanca di ogni sopruso e violenza. «Guai se non avessimo la speranza – spiega suor Giovanna – è Cristo la nostra speranza. Possiamo dialogare con musulmani ed ebrei con la comune convinzione che Dio, Allah, Gesù ci chiede di vivere insieme, di essere uomini e donne di pace, di incontro, di perdono». Al dolore, infatti, si somma il dolore: «Abbiamo incontrato un gruppo di migranti dall’Asia. Alcune delle loro famiglie sono state addirittura coinvolte negli attentati del 7 ottobre, mentre altri hanno perso il lavoro e con esso anche la possibilità di restare in Israele. Alcune donne cristiane palestinesi, con parenti a Gaza, mi hanno lasciato ammutolita di fronte alla loro conoscenza storica ma anche alla capacità di sopravvivenza, perdono e accettazione del male ricevuto. C’è però anche la speranza, in una prospettiva di fede ma anche di civiltà, di poter essere i promotori di un cambiamento».

Altro incontro, suggestivo, con una donna eritrea-israeliana che lavora nell’esercito israeliano: «Ha condannato il male dalle due parti, ma ha visto che anche dal male c’è la possibilità di cambiare le cose. Come israeliana, vuole infatti continuare a voler bene ai palestinesi e ad avere fiducia in loro». Anche il sostegno di tanti amici ebrei, sintetizzato nel messaggio “Siete ancora le benvenute, rimanete qui”, sono per suor Giovanna «reazioni buone che danno un segno di speranza, che riconoscono la volontà di ricominciare». Come farlo? Per suor Giovanna, il compito è anche nostro: «Tocca a voi il compito di dire la verità, di raccontare la storia dal 1948 a oggi, correggendo narrative e pregiudizi per raccontare la verità che i popoli vogliono ma che i capi nascondono».

28 neonati prematuri portati al sicuro in Egitto

Lunedì 20 novembre, 28 neonati prematuri evacuati dall’ospedale di al Shifa, nella Striscia di Gaza, sono arrivati in Egitto. Facevano parte di un gruppo di 31 neonati che domenica erano stati portati dall’ospedale occupato ormai da giorni dall’esercito israeliano, nella città di Rafah, nel sud della Striscia, al confine con l’Egitto. Tre di loro non sono ancora nelle condizioni di essere trasportati in Egitto, ha detto a Reuters un portavoce dell’Oms. Intanto Ismail Haniyeh, uno dei leader di Hamas ha dichiarato che «siamo vicini a raggiungere un accordo su una tregua» con Israele. Alla base ci sarebbero l’ingresso di aiuti a Gaza e il rilascio di donne e bambini israeliani in cambio di donne e bambini palestinesi.

Andrea Canton

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)