Libano, suor Assaf: finite le medicine, superata la linea rossa
Scaffali vuoti nelle farmacie. E al dispensario Saint-Antoine, l'ultima speranza, le telefonate cominciano la mattina presto e non si fermano. "C'è chi ha bisogno e non trova più le sue medicine...
Scaffali vuoti nelle farmacie. E al dispensario Saint-Antoine, l'ultima speranza, le telefonate cominciano la mattina presto e non si fermano. "C'è chi ha bisogno e non trova più le sue medicine, perché neanche nei centri di prima assistenza ce ne sono più" dice suor Antoinette Assaf, 54 anni, libanese. All'agenzia Dire risponde al telefono da Rosuiesset-Jdideh, uno dei quartieri di Beirut dove cristiani e musulmani hanno vissuto insieme anche durante la guerra civile (1975-1990). E il dispensario, che la missionaria gestisce per la Congregazione delle Suore del Buon pastore, accoglie tutti, indipendentemente dalla fede. "Oggi ce n'è bisogno più che mai" sospira suor Antoinette: "Il Libano era un Paese a reddito medio ma ormai almeno il 55% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà".
Il numero delle chiamate al dispensario, allora, è un segnale. "La salute dei libanesi è la 'linea rossa' che non avremmo mai pensato potesse essere superata" denuncia suor Antoinette. Il riferimento è alle responsabilità della politica, accentuate da una crisi e da un vuoto di potere che dall'esplosione del 4 agosto scorso al porto di Beirut non ha fatto che avvitarsi su se stessa. Il nuovo primo ministro designato, il milionario Najib Mikati, ha il compito di ridare una prospettiva a un Paese rimasto sospeso nove mesi per lo scontro tra il capo di governo "in pectore" Saad Hariri e il presidente Michel Aoun. Le responsabilità dell'esplosione, causata da nitrato d'ammonio immagazzinato senza le misure di sicurezza necessarie, restano da chiarire. I morti erano stati più di 200, intere zone della città erano state sventrate. L'economia poi è andata a fondo, con una svalutazione della sterlina libanese del 90% in meno di due anni e una crisi definita dalla Banca mondiale come una delle più gravi di sempre.
Secondo suor Antoinette, "se nei prossimi giorni non si insedierà un nuovo governo la situazione peggiorerà ancora". Avere speranza è difficile, sottolinea la missionaria, ma aiutano la fede e anche la solidarietà: "In questo quartiere la vediamo ogni giorno, nelle famiglie, con gli amici, nell'incontro quotidiano tra vicini che si aiutano tra loro nelle difficoltà".
Ad avere cura lo si impara anche nel centro sociale gestito dalle suore del Buon pastore, con il supporto della onlus italiana Good Shepherd International Foundation. Dopo l'esplosione è diventato un punto di riferimento per i servizi di assistenza psicologica alle vittime del trauma, in particolare ai bambini. "A un anno di distanza alcuni di loro, se sentono un rumore, portano istintivamente le mani alle orecchie o si buttano sotto il tavolo come in cerca di protezione" racconta suor Antoinette. È da qui, dal servizio per gli altri, che bisognerebbe ripartire. Anche perché le notizie della politica e dell'economia non sembrano dare segnali di speranza. "La mancanza di medicine è un fenomeno per certi versi incomprensibile" dice la missionaria. "Gli importatori dicono di pagarle con un tasso di cambio di 18mila sterline libanesi per dollaro, molto più alto di quello ufficiale, che è di 1.500; il governo e la Banca centrale non hanno dollari a sufficienza; il ministero della Salute denuncia che le scorte ci sono, ma sono ferme nei magazzini".
Accuse, sospetti e mezze verità segnano questo primo anniversario. Domani, 4 agosto, si terrà a Parigi una conferenza internazionale dei donatori. Il ministero degli Esteri francese, che organizza l'incontro con il sostegno delle Nazioni Unite, sostiene che l'obiettivo è "rispondere ai bisogni dei libanesi perché la situazione si sta aggravando giorno dopo giorno".
Sullo sfondo resta il nodo che rischia di strangolare il Libano. "Per decenni l'economia nazionale è vissuta di importazioni" dice suor Antoinette: "Oggi non abbiamo fabbriche per produrre né medicine né vaccini e paghiamo un prezzo molto alto". (DIRE)