Lavoro, solo il 59,5% degli occupati ha una modalità standard. Penalizzati giovani, donne e stranieri

Rapporto annuale Istat. I lavoratori dipendenti a tempo determinato sono raddoppiati dall’inizio degli anni ’90, attestandosi a 2,9 milioni nel 2021. L’occupazione a tempo parziale è passata dall’11% dei primi anni ’90 al 18,6% dell’ultimo anno. Nel 60,9% dei casi il part-time è involontario. Sono lavoratori non standard il 39,7% degli occupati under35, il 34,3% dei lavoratori stranieri, il 28,4% delle lavoratrici

Lavoro, solo il 59,5% degli occupati ha una modalità standard. Penalizzati giovani, donne e stranieri

Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno portato a una decisa diminuzione del lavoro standard, cioè di quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno. Nel 2021 queste modalità di lavoro riguardano il 59,5% del totale degli occupati. A sottolinearlo è l’Istat nel suo Rapporto annuale 2022.

I lavoratori indipendenti sono progressivamente diminuiti - da quasi un terzo degli occupati all’inizio degli anni ’90 a poco più di un quinto nel 2021 (circa 4,9 milioni) - per effetto del calo di imprenditori, lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), coadiuvanti e collaboratori. Il 73,1% di questo segmento di lavoratori non ha dipendenti.

I lavoratori dipendenti a tempo determinato sono raddoppiati dall’inizio degli anni ’90, attestandosi a 2,9 milioni nel 2021. Negli anni è progressivamente aumentata la quota di occupazioni di breve durata: sempre nel 2021, quasi la metà dei dipendenti a termine ha un lavoro di durata pari o inferiore a 6 mesi. L’occupazione a tempo parziale è passata dall’11% dei primi anni ’90 al 18,6% dell’ultimo anno. Nel 60,9% dei casi il part-time è involontario, componente che ha mostrato la crescita più consistente.
Quasi 5 milioni di occupati (il 21,7% del totale) sono non-standard, cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Tra questi, 816 mila sono sia a tempo determinato o collaboratori sia in part-time involontario.

Sono lavoratori non standard il 39,7% degli occupati under35, il 34,3% dei lavoratori stranieri, il 28,4% delle lavoratrici, il 24,9% degli occupati con licenza media e il 28,1% dei lavoratori residenti nel Mezzogiorno. “La sovrapposizione di tali caratteristiche aggrava le condizioni di debolezza nel mercato del lavoro – precisa l’Istat -: la quota di lavoratori non-standard raggiunge il 47,2% tra le donne sotto i 35 anni e il 41,8% tra le straniere”.
Una marcata concentrazione di lavoratori non-standard si rileva nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura (quattro su dieci), nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).
Tra le professioni non qualificate (addetti alle consegne, lavapiatti, addetti alle pulizie di esercizi commerciali, collaboratori domestici, braccianti agricoli e simili) la quota di lavoratori non standard arriva al 47,5% mentre si attesta al 29,9% tra gli addetti al commercio e servizi (commesse, addetti alla ristorazione, baby sitter, badanti e simili). Nelle professioni qualificate, scientifiche e intellettuali, i lavori non standard si rintracciano tra ricercatori universitari, insegnanti, giornalisti e professionisti in ambito artistico.
In 4 milioni e 300 mila famiglie è presente almeno un occupato non-standard e in 1 milione e 900 mila è l’unico occupato: in un terzo dei casi vive solo e in un ulteriore terzo in coppia con figli; solo nel 20% dei casi in famiglia è presente un ritirato dal lavoro.
Ammontano a quasi 500 mila gli “autonomi dipendenti”, ossia gli occupati che, pur essendo formalmente autonomi, sono vincolati da rapporti di subordinazione ad altra unità economica che ne limita l’accesso al mercato o l’autonomia organizzativa. Nel 35% dei casi sono lavoratori non-standard, per un totale di circa 170 mila occupati.
Negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiate le posizioni lavorative in somministrazione, da 167 mila (in media mensile) nel 2012 a oltre 390 mila nel 2021. Quelle intermittenti, nel 2021, si attestano invece a 214 mila. “Si tratta di tipologie contrattuali caratterizzate da un’importante componente non-standard: hanno infatti contratti a termine oltre il 70% dei lavoratori dipendenti in somministrazione e la maggioranza degli intermittenti; questi ultimi, inoltre, lavorano mediamente solo 11 giornate al mese”, afferma l’Istat.

Disuguaglianza nelle retribuzioni

Circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (con l’esclusione dei settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) – il 29,5% del totale – percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12 mila euro (sono a bassa retribuzione annua) mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti – il 9,4% del totale – la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora (sono a bassa retribuzione oraria). Tra questi, quasi 1 milione percepiscono meno di 12 mila euro l’anno e meno di 8,41 euro l’ora.
Solo 6,5 milioni di dipendenti del settore privato (esclusi i settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) hanno un’occupazione a tempo indeterminato e full time per l’intero anno. Le loro retribuzioni annuali sono superiori anche a quelle degli altri dipendenti che, pur essendo a tempo parziale o determinato, hanno lavorato in tutti i mesi dell’anno: i dipendenti a tempo pieno e a termine hanno retribuzioni inferiori di quasi il 30%, quelli a tempo parziale e indeterminato di oltre il 50% e i dipendenti a tempo parziale e a termine di oltre il 60%.
I lavoratori a bassa retribuzione oraria (inferiore a 8,41 euro lordi) sono più spesso giovani fino a 34 anni, donne, stranieri (soprattutto extra-Ue), con basso titolo di studio e residenti nel Sud. “Se in molti casi si tratta di giovani ancora nella famiglia di origine, non è infrequente che siano genitori soli o in coppia – afferma l’Istat -. Sono più spesso occupati nel settore degli altri servizi (come ad esempio, organizzazioni associative, attività di servizi per la persona, riparazione di beni per uso personale e per la casa), in quelli di supporto alle imprese e di intrattenimento, alloggio e ristorazione, istruzione privata”.

Le imprese che assicurano le condizioni retributive migliori sono anche quelle dove prevalgono nettamente le posizioni lavorative a tempo pieno e indeterminato: si tratta di un numero esiguo di imprese, meno di 60 mila, di dimensioni elevate, che rappresentano circa un sesto delle posizioni; le retribuzioni orarie superano in media i 15 euro.
Gli individui con più basse retribuzioni sono occupati in prevalenza in imprese che offrono condizioni lavorative più svantaggiose, dove basse retribuzioni orarie si combinano con contratti a tempo determinato o part time (circa 700 mila imprese per circa il 27% di posizioni). Tuttavia quasi la metà lavora in imprese (circa 420 mila, che rappresentano quasi un terzo delle posizioni) caratterizzate dalla coesistenza di posizioni standard, nel complesso prevalenti, e posizioni a tempo parziale o a termine.
“La crescita dei prezzi osservata dalla seconda metà del 2021 fino a maggio 2022, in assenza di ulteriori variazioni al rialzo o al ribasso, potrebbe determinare a fine anno una variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari a +6,4%. Senza rinnovi o meccanismi di adeguamento ciò comporterebbe un’importante diminuzione delle retribuzioni contrattuali in termini reali che, a fine 2022, tornerebbero sotto i valori del 2009”, è l’allarme dell’Istat.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)