L’America Latina flagellata dal Coronavirus. Mons. Cabrejos (Celam): “Qui la sanità pubblica è a livelli inumani”
"Ho notato un cammino meraviglioso, la Chiesa non sarà la stessa di prima. C’è sicuramente un cammino sinodale che ci sta si fronte e che stiamo vivendo come Celam, dentro a un ripensamento della nostra struttura. Al tempo stesso, la Chiesa è chiamata a essere più semplice, essenziale, vicina alle persone, fraterna e solidale. Tutti dobbiamo sentirci parte della stessa Chiesa universale e camminare insieme: vescovi, sacerdoti, religiosi, laici…". Parla mons. Miguel Cabrejos, arcivescovo di Trujillo e presidente del Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano, che raggruppa i vescovi delle ventidue Conferenze dell’America Latina e Caraibi
“Per l’America Latina questa è proprio la tempesta perfetta. Siamo al culmine dei contagi, tutto il continente americano, a partire dagli Stati Uniti, è diventato l’epicentro attuale del Covid-19. Ma, al tempo stesso, non si riesce più a tenere la gente in quarantena, dopo mesi di restrizioni, proprio quando sarebbe ancora più necessario”. Senza contare che l’emergenza sanitaria trascina nel baratro le già fragili economie dei Paesi della regione. Mons. Miguel Cabrejos, peruviano, francescano minore, arcivescovo di Trujillo, è da circa un anno il dinamico presidente del Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano, che raggruppa i vescovi delle ventidue Conferenze dell’America Latina e Caraibi. Dal suo osservatorio privilegiato, costituito da colloqui quotidiani con i pastori di tutto il continente, manifesta grande preoccupazione sia per la situazione sanitaria, sia per le conseguenze sociali di quanto sta accadendo, sia per l’incertezza politica e il modo in cui alcuni Governi stanno gestendo la pandemia. Mons. Cabrejos ha accettato volentieri di parlare con il Sir proprio di questi temi.
Eccellenza, tutto il modo si sta accorgendo che l’America Latina è diventata epicentro dei contagi. Cosa ci può dire in proposito?
Sì, le prospettive non sono buone per tutto il continente americano, che a me non piace tenere separato rispetto agli Stati Uniti. I dati sono noti, ma anche se le cifre ufficiali sono molto alte, esse non sembrano riflettere la gravità della situazione in alcuni Paesi. Per esempio, in Perù, Cile, lo stesso Brasile, è stato fatto un numero più alto di tamponi. Lo stesso, probabilmente, non si può dire di Argentina, Bolivia, Ecuador, Panama, anche chiaramente la situazione non si può conoscere fino in fondo.
Poi c’è la gestione politica, preoccupa l’atteggiamenti dei presiedenti di Messico e Brasile. Non sembrano impegnati fino in fondo a combattere il contagio, pare che non capiscano bene la gravità della situazione. Almeno, è quello che emerge dal mio dialogo fluido e continuo con i vescovi.
Brasile e Messico sono due grandi Paesi, e quello che arriva non è un buon segnale. Il Messico ha un tasso di mortalità del 10 per cento rispetto ai contagiati, probabilmente sono stati fatti pochi tamponi. Il Perù e il Cile, al contrario, hanno moltissimi contagiati e un tasso minore di mortalità.
L’emergenza sanitaria incrocia quella economica, come uscirne?
Già prima dell’arrivo del virus vivevamo una situazione economica molto difficile. Il Fondo monetario internazionale ha detto che l’America Latina è l’area che cresce meno al mondo, e il Cepal (la Commissione Onu per l’America Latina e in Caraibi) ha denunciato che gli ultimi 5 sono stati i peggiori da settant’anni a questa parte. Conosciamo la crisi politica e sociale di vari Paesi, il Venezuela su tutti, ma anche la situazione del debito argentino. Si tratta di crisi strutturali, finora affrontate con politiche di corto respiro. Il peggioramento della questione economica rischia di creare tensioni sociali, dopo quelle dello scorso autunno. Già negli ultimi giorni, ci sono state proteste in Ecuador.
E poi resta la situazione inadeguata dei sistemi sanitari, come l’arrivo del Covid-19 ha messo in luce…
Su tutti c’è il tema del vaccino, quando arriverà. Come sarà garantito l’accesso a esso delle nostre popolazioni povere? L’America Latina è abitata da 400 milioni di persone.
La pandemia ha, certo, mostrato il limite dei nostri sistemi sanitari.
Il livello della sanità pubblica, in molti casi, è incomprensibile e inumano. Moltissimi ospedali sono collassati! Moltissimi!
In questa situazione difficile risalta l’opera di carità della Chiesa, ce ne vuole parlare?
La Chiesa si è impegnata soprattutto sul fronte sanitario e caritativo, con i suoi diversi organismi di pastorale… la Caritas, la pastorale sociale, sia a livello nazionale che di singole diocesi, le congregazioni religiose, le associazioni. Molti si sono organizzati soprattutto per portare aiuto in alimenti e generi di prima necessità, mense… Ciò mette in luce che i Governi possono anche parlare di riattivazione economica, ma il punto centrale resta il lavoro, se manca non si mangia.
Tra tutte le aree del Continente, inquieta in particolare la Panamazzonia, e in particolare la popolazione indigena, particolarmente esposta al virus. È anche la sua preoccupazione e quella del Celam?
È, infatti, una questione molto grave, il numero di contagiati è molto aumentato, ho avuto occasione di parlarne con MauricioLópez, il segretario esecutivo della Repam, la Rete ecclesiale panamazzonica.
La situazione è molto grave soprattutto nella foresta brasiliana, peruviana e colombiana.
Questo organismo sta facendo un grandissimo lavoro, anche in collaborazione con il Celam. Ci sono anche degli esempi molto concreti, per esempio quello di Iquitos, in Perù, dove la Chiesa ha comprato l’ossigeno, respiratori e ventilatori, per i malati di Covid-19. Devo dire che, dentro la grande preoccupazione che stiamo vivendo, è motivo di speranza la nascita dell’organismo episcopale panamazzonico, frutto del recente Sinodo.
Altra preoccupazione sono i migranti, sia in Sudamerica, con gli spostamenti di venezuelani, che in America Centrale. Anche in questo caso la Chiesa sta facendo fronte all’emergenza?
A livello continentale, collegata al Celam, c’è la rete Clamor, che raggruppa tutti i soggetti impegnati nell’assistenza e accoglienza ai migranti. Si sta facendo meglio che si può. In Perù, per esempio, i venezuelani sono oltre un milione, e il dramma è che ora non hanno lavoro, è davvero un dramma. E spesso tra i migranti ci sono donne e bambini.
Il Papa non ha fatto mancare i suoi appelli, e nella lettera ai movimenti popolari ha lanciato la proposta di un salario universale…
La sua vicinanza è davvero grande e noi la avvertiamo. Domenica 31 maggio, all’Angelus, riferendosi all’Amazzonia, ha parlato del primato della persona, che è tempio dello Spirito Santo, rispetto all’economia, che invece non lo è. Come Celam, stiamo cercando di accogliere le sue proposte e di portarle ai Governi. Posso parlare dell’esperienza che stiamo facendo in Perù, di rete e collaborazione, soprattutto in cinque ambiti: aiuto umanitario, riflessione, accompagnamento, consapevolezza, formazione e spiritualità, comunicazione, incidenza e vigilanza sociale.
Che Chiesa si intravvede, in particolare nel continente latinoamericano, a partire dall’esperienza che stiamo vivendo?
Ho notato un cammino meraviglioso, la Chiesa non sarà la stessa di prima. C’è sicuramente un cammino sinodale che ci sta si fronte e che stiamo vivendo come Celam, dentro a un ripensamento della nostra struttura. Al tempo stesso,
la Chiesa è chiamata a essere più semplice, essenziale, vicina alle persone, fraterna e solidale.
Tutti dobbiamo sentirci parte della stessa Chiesa universale e camminare insieme: vescovi, sacerdoti, religiosi, laici… È quello che cercheremo di fare al convegno previsto per la seconda metà dell’anno prossimo a Città del Messico, per fare memoria della Conferenza di Aparecida.