Israele-Palestina: Pizzaballa (patriarca): “Ricostruire la fiducia e nuove leadership credibili” per voltare pagina
"Ricostruire la fiducia, trovare nuove leadership credibili" per voltare pagina e provare a riattivare il dialogo israelo-palestinese. Dopo le tensioni, ancora palpabili, delle settimane scorse, il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, al Sir fa il punto della situazione in Terra Santa. Tra gli argomenti toccati anche l'Accordo Fondamentale Israele-Santa Sede, il nuovo establishment politico israeliano, la vita delle comunità cristiane
Accordo fondamentale, rilancio del negoziato per il processo di pace, pellegrinaggi e vita delle comunità cristiane: sono solo alcuni dei punti toccati dal patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa in un’intervista rilasciata al Sir.
Il 7 luglio scorso Isaac Herzog ha giurato davanti alla Knesset da 11° presidente di Israele. Nel suo intervento al parlamento ha messo in guardia contro la polarizzazione in Israele: “Questi sfortunatamente non sono giorni normali. La divisione in fazioni e la polarizzazione esigono un prezzo pesante oggi e sempre. Quello più gravoso per tutti noi è l’erosione della resilienza nazionale”. Chiaro il riferimento al quartiere di Sheikh Jarrah, la zona a ridosso della Città Vecchia contesa da coloni israeliani e dai palestinesi, che, a maggio scorso, ha innescato scontri che si sono propagati a macchia d’olio in Israele, Cisgiordania e Gaza. Il 13 giugno, la Knesset, il parlamento israeliano, aveva votato la fiducia al nuovo governo di Naftali Bennett, il primo dopo 12 anni di potere di Benjamin Netanyahu. Bennett, leader del partito di destra Yamina, è a capo di una coalizione ‘risicata’ nei numeri, per quanto sostenuta da ben otto partiti, tra i quali “Raam”, formazione araba islamista, per la prima volta al potere. In questo contesto così complicato arriva, dall’Australia, l’arcivescovo filippino Adolfo Tito Yllana, nominato ai primi di giugno, da Papa Francesco nunzio apostolico in Israele e in Cipro e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina.
Beatitudine, con un nuovo Governo, un nuovo presidente e anche un nuovo nunzio apostolico, è lecito sperare, dopo tanto lavoro, nella conclusione positiva dei negoziati riguardanti le questioni delle proprietà, le questioni fiscali ed alcune economiche specificate nell’articolo 10 par. 2 dell’Accordo fondamentale fra la Santa Sede e lo Stato di Israele del 1993?
Direi che è possibile, quella che abbiamo davanti è una finestra di opportunità. Spero che ci sia da ambo le parti il desiderio di arrivare alla soluzione di questa tormentata vicenda. Credo ci siano le condizioni per farlo. Alla Knesset, tra l’altro, è iniziato anche il procedimento per l’approvazione della personalità giuridica (ecclesiatical legal personality) degli enti ecclesiastici. Mi pare che disponibilità e possibilità di concludere non manchino.
Il neo presidente Herzog parlando alla Knesset ha messo in guardia il Paese dal rischio di divisione. Dopo gli scontri del mese di maggio un monito da tenere presente…
Da questo punto di vista il discorso del presidente Herzog è stato importante. Le recenti proteste, degenerate poi in scontro aperto, hanno rivelato tutte le profonde divisioni e le ferite all’interno della società israeliana che hanno bisogno di essere prese in considerazione. Cosa che non è stata fatta. Si è lavorato piuttosto nella direzione opposta per motivi politici o di interesse personale. I fatti di Gerusalemme sono anche un po’ il segno di quanto è avvenuto in campo politico in Israele in questi ultimi anni. E tutto questo dimostra che non possono esserci soluzioni unilaterali.
Chi all’interno della società israeliana potrebbe raccogliere l’invito del presidente Herzog?
Esiste una buona parte della società e della politica che ha preso coscienza di questo problema e lo vuole affrontare. Almeno così mi auguro perché è un’urgenza sempre più evidente. La situazione, infatti, non è cambiata. Le tensioni continuano anche se non si verificano gli scontri aperti e continui delle settimane passate.
A tale riguardo, la presenza di un partito arabo all’interno della compagine di Governo può contribuire a placare gli animi e sanare queste divisioni?
È bene ricordare che il 20% della popolazione israeliana è arabo e che è sempre stato tenuto un po’ ai margini della società. Che ci sia adesso qualcuno che entri nel Governo e poco alla volta e in maniera graduale, cominci a far sentire anche la voce di questa minoranza non è negativo. La convivenza non è in discussione perché continueremo a vivere tutti insieme qui. Bisognerà fare in modo che sia una convivenza positiva e non subìta semplicemente.
Se Israele piange la Palestina non ride, tanto per riecheggiare un adagio che ben descrive la situazione. Anche sul versante palestinese, infatti, ci sono forti spaccature. A Ramallah, Hebron e Betlemme si sono scatenate proteste contro il presidente Abu Mazen dopo la morte, il 24 giugno scorso, di Nizar Banat, oppositore del governo…
Le spaccature in seno alla società palestinese non sono certo nuove. Ci sono divisioni tra Gaza, dove governa Hamas, e West Bank in mano all’Autorità palestinese, quest’ultima sempre più indebolita dalle accuse di corruzione e di malgoverno. È il momento in cui i nodi vengono al pettine sia in Israele che in Palestina.
Come scioglierli, allora?
Innanzitutto bisogna avere la volontà politica di farlo. Altro passo necessario, a mio avviso, è
ricostruire la fiducia, dare spazio a nuovi volti e nuove leadership da ambo le parti.
In una parola, trovare il coraggio di voltare pagina. Diversamente ci si parla addosso e sempre con gli stessi discorsi di sempre. Come dice il Vangelo? Non si mette una pezza di stoffa nuova sopra un vestito vecchio…
In questo caso, la soluzione, sostenuta anche dalla Santa Sede, dei “Due Popoli Due Stati” è la pezza o il vestito?
“È l’unica soluzione rimasta anche se non è possibile, impraticabile. Parlarne adesso poi, in questa situazione, è come parlare di cose astratte. Ciò che voglio dire è che oggi non ci sono le condizioni per un dialogo tra israeliani e palestinesi.
Stiamo parlando di ipotesi future. Come dicevo poc’anzi, adesso dobbiamo cercare di ricostruire il tessuto del territorio e di avere leadership credibili da ambo le parti così da preparare il terreno per arrivare a questo. Diversamente restiamo sul piano degli slogan campati in aria.
Sulla ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi, nei giorni scorsi si è espresso anche il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, che ha annunciato che a fine luglio farà visita al nuovo governo israeliano per poi recarsi nei Territori palestinesi con la ministra spagnola Arancha Gozalez Laya. Lo scopo, ha affermato il titolare della Farnesina, è “riaccendere e rivitalizzare il ruolo del Quartetto (Ue, Usa, Onu e Russia, ndr.) e provare a innalzare il profilo dell’Ue” per riportare le parti al negoziato di pace.
Parlare di negoziato adesso non ha molto senso. Negoziato con chi e tra chi? Per avere un negoziato servono gli interlocutori. Tuttavia credo che queste iniziative siano importanti per tenere alta l’attenzione. In questo momento è difficile ottenere di più.
Il Papa, che a marzo è stato in Iraq e il 1° luglio ha avuto un incontro sul Libano, continua a lanciare appelli per il Medio Oriente. Sembra sia l’unico leader mondiale a comprendere l’importanza della stabilità e sicurezza di questa tormentata area del mondo. La Comunità internazionale, al contrario, si muove in ordine sparso. Perché?
C’è da capire cosa si intende per comunità internazionale, se l’Onu, l’Ue, gli Usa, la Russia e via dicendo. Sappiamo chi sono gli attori e che nessuno di loro si muove come un benefattore. Se non hanno interessi non si muovono. La questione israelo-palestinese, poi, è diventata quasi residuale nelle agende diplomatiche. Detto ciò bisogna affermare con chiarezza che
la Comunità internazionale non potrà mai sostituirsi a Israele e Palestina.
Può aiutarli, accompagnarli nel cammino. Ma se israeliani e palestinesi non si parlano la Comunità internazionale non potrà fare molto. Con la pandemia, le varie crisi interminabili come in Afghanistan, in Siria, in Iraq – Paesi che hanno pure visto il fallimento della presenza occidentale – non credo ci siano le condizioni per la comunità internazionale di fare qualcosa, se non aiutare economicamente ma nemmeno più di tanto.
Cinque anni fa, proprio di questo periodo, Lei veniva nominato Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme mettendo subito mano al risanamento economico e finanziario del Patriarcato. Nove mesi fa diventava Patriarca. In questi giorni ha provveduto alle prime nomine e cambiamenti. Quali sono gli orientamenti pastorali che intende seguire per dare vitalità alla comunità ecclesiale patriarcale?
In questi anni la Chiesa patriarcale non si è mai fermata e ha continuato ad operare in tutti i suoi ambiti pastorali, educativi e formativi. Sono al Patriarcato latino da 5 anni, cambiano i titoli ma non la sostanza delle cose. Cambiano invece i tempi e le prospettive.
Era necessario dare delle indicazioni alla diocesi, mostrare nuovi volti e lavorare sull’unità della diocesi, nelle sue diverse aree pastorali e preparare anche un nuovo gruppo di laici impegnati nella Chiesa.
In questo tempo Lei ha incontrato e ascoltato le comunità cristiane: come stanno reagendo a questo clima di particolare tensione?
I cristiani non sono un popolo a parte. Essi risentono allo stesso modo della situazione. Non sono esenti dai problemi, né in Israele, né in Palestina, né a Gaza. Essendo poi una minoranza, è chiaro che mostrano maggiore fragilità. Vedo in loro tanta voglia di fare e se si lamentano è perché non vedono risposte alle loro attese.
Una risposta concreta ai loro bisogni potrebbe venire anche dai pellegrinaggi? Sembra registrarsi una lieve ripresa dopo il blocco totale imposto dal Covid-19.
Speriamo perché abbiamo bisogno dei pellegrini. Il pellegrinaggio è un aspetto fondante della nostra Chiesa fatta di persone e di luoghi santi. I pellegrini, inoltre, portano sostentamento alle famiglie dei cristiani moltissimi dei quali lavorano nell’ambito del turismo e dei pellegrinaggi. Dopo due anni di vuoto totale si percepisce la fatica di tanti a ritrovare prospettive e speranza nel futuro. Contiamo nella ripresa ma sta tornando un po’ di paura per la risalita dei contagi, a causa della variante Delta. Per tornare ai livelli pre-Covid-19 dei pellegrinaggi ci vorrà molto tempo. Ci saranno ancora delle limitazioni ma spero non interrompano la ripresa graduale dei viaggi, necessari a darsi delle prospettive e linee di impegno future.