Caso Zaky, “il governo egiziano sfrutta il coronavirus per calpestare i diritti”
Nella confusione creata dalle misure anti-Covid, la repressione in Egitto non si ferma. Amr Abdelwahab, attivista e amico dello studente egiziano dell’università di Bologna in carcere al Cairo, racconta: “Con la scusa di voler evitare il contagio tra i detenuti, le udienze sono sospese e i contatti con la famiglie e gli avvocati sono interrotti”
“Il governo sta usando la scusa delle misure anti-Covid per isolare i detenuti e interrompere i contatti con le famiglie e gli avvocati: non sono permesse le chiamate, e spesso anche le lettere vengono bloccate in entrata o in uscita, specialmente per i prigionieri politici. Per non parlare del fatto che le udienze sono continuamente sospese e rimandate a data da destinarsi”. Amr Abdelwahab, attivista egiziano che vive a Berlino, è l’amico di Patrick George Zaky in prima fila tra coloro che in tutta Europa ne stanno chiedendo la liberazione. Dal 9 marzo non si hanno più notizie di Patrick: né i suoi genitori né il suo avvocato l’hanno più potuto incontrare, per via delle restrizioni dovute all’emergenza coronavirus. Le ultime cinque udienze che avrebbero potuto portare alla sua scarcerazione sono state rinviate.
“È una situazione totalmente illegale, mascherata sotto la facciata delle misure per il coronavirus – afferma Abdelwahab –. Trovandosi in detenzione preventiva, Patrick è rimasto incastrato in uno strano limbo fatto di continui rinvii della sua udienza, venendo così privato di un diritto fondamentale: quello della difesa in un giusto processo”.
Anche in un momento come questo, la repressione in Egitto sembra quindi non fermarsi: nelle ultime settimane sono avvenuti diversi arresti di persone che criticavano le azioni messe a punto dal governo per contenere i contagi. “Le prigioni egiziane sono tra i luoghi più pericolosi durante la pandemia: il problema del sovraffollamento si somma da sempre alla bassa qualità dell’assistenza sanitaria – spiega Abdelwahab –. Il governo non sta prendendo nessun provvedimento serio per garantire condizioni sicure nelle carceri: l’unica risposta è stata quella di chiudere dentro i prigionieri, assumendo che così il virus non sarebbe potuto entrare. Addirittura, quando le famiglie provano a portare materiale sanitario ai detenuti, come il disinfettante per le mani, non sempre glielo consegnano”.
Eppure gli agenti penitenziari entrano ed escono ogni giorno: se anche solo uno di loro avesse contratto il virus, il rischio di contagio in spazi stretti e sovraffollati sarebbe altissimo. “Ogni essere umano sano di mente capirebbe che, in tempi come questi, non è il momento di mettere a rischio l’intera nazione tenendo chiuse decine di migliaia di detenuti in spazi malsani, specialmente quando si tratta di persone in custodia cautelare, che quindi non sono ancora state giudicate colpevoli”.
E mentre i genitori di Patrick chiedono di poter almeno “sentire la sua voce”, per assicurarsi che loro figlio stia bene, anche il rettore dell'università di Bologna, Francesco Ubertini, continua a chiedere la liberazione di Patrick: “Sono già 74 i giorni di reclusione che Patrick ha dovuto sopportare nel carcere egiziano di Tora, tra i detenuti politici – scrive Ubertini –. Attendo con fiducia l'esito della nuova udienza fissata per martedì 21 aprile: mi auguro davvero che questa volta non ci siano ulteriori rinvii. La nostra università si è mobilitata sin dall’inizio della detenzione del nostro studente, nel febbraio scorso. Oggi come allora resta ferma la nostra richiesta: chiediamo per Patrick, membro della nostra comunità, il rispetto dei diritti fondamentali, dei diritti politici, la tutela della libertà d’espressione e soprattutto il diritto alla libertà individuale”.