Body shaming in tv e on line, cos’è e come contrastarlo
Attribuire qualità negative a una persona sulla base di caratteristiche fisiche: è questo il significato di “body shaming”, fenomeno sempre più diffuso e finito sulle cronache italiane per avere coinvolto la giornalista Giovanna Botteri. Camilla Hennig, psicologa: “Comportamento appreso, serve cambiamento culturale radicale”
“Mi piacerebbe che l'intera vicenda, prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne”. Giovanna Botteri, corrispondente Rai da Pechino, ha risposto così alle offese ricevute sui social (e riprese da una trasmissione televisiva) circa il suo aspetto fisico, riassunte nei titoli dei media mainstream come “body shaming”. Ma che cosa si intende, esattamente, con questa espressione?
“Sei grasso! Sei tutto pelle e ossa! Guarda che seno enorme? Guarda quella, piatta come una tavola da surf! Quante volte, passeggiando per strada, o anche solo restando in casa, ci siamo ritrovati a sentire, dire, pensare affermazioni del genere? Tante, troppe. Se ne parla ancora poco, ma si tratta di un fenomeno preciso, che va sotto il nome di body shaming. Tradotto letteralmente, vergogna del proprio corpo”, spiega Camilla Hennig, psicologa e psicoterapeuta in formazione. Traduzione che, secondo Hennig, è un po’ troppo confusiva, perché di fatto sposta l’accento dall’azione alle vittime. “È meglio tradurre con stigmatizzare, attribuire qualità negative a una persona sulla base di caratteristiche fisiche. In pratica, umiliare una persona per l’aspetto fisico”. Commenti, insulti online o dal vivo, diffusione di foto sulle chat di WhatsApp o Telegram, una gif realizzata ad arte con un unico scopo: denigrare e deridere la vittima.
È una forma di bullismo: troppo grasso, troppo magro, poco o troppo seno, pochi peli o poca barba. Caratteristiche che vengono messe nel mirino e utilizzate per azzerare le sicurezze e l’autostima delle vittime: “Spesso si tratta di aspetti che difficilmente possono essere cambiati – continua Hennig –, ma il destinatario dei commenti prova comunque a fare qualcosa. Mettersi a dieta, depilarsi o farsi i capelli in un determinato modo, solo per assecondare la visione di qualcuno”. Secondo un’indagine condotta da Nutrimente onlus di Milano, associazione per la prevenzione, la cura e la conoscenza dei disturbi del comportamento alimentare, una donna su due afferma di essere stata giudicata per i chili di troppo. Tra gli adolescenti è il 94 per cento che dichiara di essere stato vittima di body shaming. “Sulle donne ci si accanisce maggiormente, questo perché ci sono molti più elementi su cui focalizzarsi: dal pallore alla magrezza, dai capelli alla forma delle gambe. Giudizi legati al modello di bellezza che ci viene imposto e con il quale conviviamo quotidianamente: i corpi belli sono quelli magri. Questo assioma spiega anche perché è molto più probabile il body shaming sulle persone ‘grasse’, fenomeno talmente diffuso da meritare un’etichetta tutta sua: fat shaming”. Anche in questo caso, tradurre con ‘vergogna del grasso’ sarebbe fuorviante. C’è chi opta, per esempio, per stigma del peso: si tratta di un atteggiamento che si concretizza in più passaggi: la derisione in pubblico; un sentimento di riprovazione per la persona in questione; un giudizio di non conformità con la propria visione del mondo; la convinzione che quel ‘difetto’ possa essere modificabile e, se non viene modificato, la colpa sia esclusivamente della persona e del suo disinteresse a ‘migliorare’ – sempre secondo il punto di vista di chi guarda – il proprio aspetto.
“Le persone con una maggiore adiposità vengono giudicate pigre, poco sane, incapaci di impegnarsi seriamente per dimagrire. Ma anche buone, comiche, divertenti. Tutti stereotipi ben radicati nel nostro immaginario collettivo. E qui veniamo al nocciolo della questione: il body shaming è un comportamento appreso. Poi c’è chi è più o meno bravo a nasconderlo, ma è necessario prenderne atto: il body shaming fa parte della nostra cultura. Faccio un esempio. Siamo in emergenza sanitaria, sono in coda a fare la spesa, il signore davanti a me starnutisce. Tutti cominceremo a pensare che sia positivo al Covid. Ecco, lo stesso accade con le persone ‘grasse’: che sia un calo di pressione o un’unghia incarnita, la colpa sarà sempre e a prescindere del loro peso. In pratica, se uno è ‘grasso’ deve per forza avere una malattia”.
Spesso, spiega Hennig, “ipocritamente si giustifica un attacco diretto con un’attenzione allo stato di salute altrui. Vedo una persona ‘grassa’ dal medico e le dico: ‘Mi dispiace tu non stia bene, ma avresti dovuto pensarci prima. ‘Di mettere su tutti quei chili di troppo’ sarebbe il prosieguo della frase, che uno si ripete in testa. Ecco, quella persona come si sente? Accudita o aggredita?”. E continuando sul parallelismo con la pandemia, si fa strada la paura del contagio: “Temiamo di essere ‘contagiati’ dalle persone ‘grasse’. Non riusciamo a empatizzare con loro perché siamo affogati in una diet culture, che ci insegna che migliorare significa dimagrire. Basti pensare all’enorme popolarità di programmi televisivi che raccontano le storie di persone obese e il loro percorso-redenzione verso un dimagrimento”. Come anticipato, body shaming e cyberbullismo sono fenomeni legati a doppio filo: secondo studi recenti, il 28 per cento delle offese online riguarda l’aspetto fisico. E allora come si comporterà la vittima? Cercherà di adeguarsi all’immagine ‘giusta’ e si darà la colpa, non la darà agli altri. Probabilmente comincerà ad assumere un comportamento alimentare scorretto e pericoloso, crollerà l’autostima e si aprirà la strada a un forte scoraggiamento. Non è escluso che percorsi di questo tipo possano portare anche al suicidio, le cronache lo confermano.
Che il body shaming sia un comportamento appreso lo dimostra la scuola dell’infanzia, con dei bimbi che apostrofano compagni ed educatrici dicendo ‘ciccione’, ‘culona’, oppure chiedono ‘fammi vedere la panciona’. Espressioni che possono strappare un sorriso, ma che rivelano una convinzione appresa: i corpi ‘grassi’ possono essere presi in giro. Come comportarsi di fronte a episodi simili? “Non si può pensare di chiudere un occhio, né di derubricare l’offesa a goliardata. Riprendendo l’esempio dei bambini, la prima cosa da fare è quella di parlare con loro e spiegare che non esistono corpi sbagliati, che dobbiamo avere rispetto di tutte le fisicità”. Serve un cambiamento sociale e non può che partire dalle persone: “È necessario modificare i nostri comportamenti: siamo immersi in questo tipo di messaggi, ma è nostra responsabilità tentare di correggerli. Naturalmente, dobbiamo crederci anche noi, perché è l’esempio il passaggio chiave. Non possiamo dire a nostro figlio di non chiamare ‘ciccione’ il compagno di classe e poi fare commenti sgradevoli sulla vicina, sottolineando, per esempio, ‘quant’è ingrassata’”. Coinvolgere il ragazzo, ascoltarlo, dargli fiducia: “Un esempio: ci racconta che un amico viene preso in giro perché ha la pancia. Un ottimo spunto per alimentare una discussione seria e sincera. Chiediamogli che problema c’è ad avere la pancia, riposizionando l’affermazione su un piano di discussione. Proviamo a sensibilizzarlo, anche puntando sull’empatia: ‘come ti sentiresti tu se ti prendessero in giro per…’”. E se invece il giovane che ci troviamo di fronte fosse la vittima? “Sicuramente dobbiamo ascoltarlo, sondiamo il terreno tenendo in considerazione gli strumenti personali. Se emerge un evento chiaro schieriamoci subito dalla sua parte, diciamogli che quello che gli è successo è ingiusto, che è normale sentirsi male. Se necessario è bene cercare un supporto psicologico, così come confrontarsi con chi, magari a scuola, può controllare”.