Terra Santa, in ascolto. La testimonianza del vescovo Antonio Mattiazzo, a servizio della Custodia di Terra Santa tra Nazareth e Betlemme
Mons. Mattiazzo: «Vivere dove è vissuto Gesù è motivo di grazia e di gioia, ma ci si confronta con la verità che Lui è ancora “segno di contraddizione”»
Il muro impressiona. È stato costruito in nome della sicurezza, per proteggere dalla violenza – dice chi l’ha voluto – ma esso stesso parla di violenza». Il muro in questione è quello che divide Israele dalla Cisgiordania: 730 chilometri pianificati – di muro, reticolato e porte elettroniche (i check point) – che hanno cominciato a “venire su” nel 2002. Chi ne è rimasto impressionato, trovandoselo davanti, è mons. Antonio Mattiazzo: l’aveva visto e oltrepassato molte volte nei pellegrinaggi, ma senza mai abituarsi. Dal 2019, al ritorno dalla missione diocesana in Etiopia, si è messo a servizio della Custodia di Terra Santa. Prima del Covid era a Nazareth, dove – insieme alla comunità dei Francescani minori – si prendeva cura della Basilica dell’Annunciazione, dividendosi tra celebrazioni, confessioni, accoglienza dei pellegrini, ritiri spirituali. Al suo ultimo ritorno in Terra Santa, dopo un periodo a Villa Immacolata – dove risiede quando è in Diocesi – gli è tato chiesto di prestare il suo servizio a Betlemme. Che si trova in Cisgiordania, nella West Bank. «Dopo pochi giorni che ero lì, sono andato a celebrare l’Eucaristia presso una comunità di religiose che si trova nel campo profughi di Aida, proprio davanti alla barriera di separazione – racconta – Mi sono reso conto che il muro non rappresenta solo una divisione territoriale, ma ancor più è il segno di una divisione religiosa, culturale e politica tra società arabo/palestinese ed ebraica. Sono quarant’anni che frequento la Terra Santa e mi accorgo che, su moltissimi fronti, si parte da principi opposti e si resta arroccati lì. In questo contesto la minoranza cristiana svolge un ruolo di enorme importanza, non solo per custodire i luoghi santi della nostra Redenzione, ma anche per testimoniare e promuovere il dialogo e la pace.
A questo riguardo è apprezzabile la presenza discreta, ma influente, della Nunziatura apostolica, del patriarca Pierbattista Pizzaballa e della Custodia di Terra Santa, che abbra maggior parte dei luoghi santi e risale ai tempi di san Francesco, ben anteriore, quindi, alla ricostituzione dello Stato di Israele nel 1948». La popolazione, sia israeliana che araba, è stata afflitta dal Covid-19, ma con una gestione diversa. Israele, dopo essere partito per primo con le vaccinazioni, grazie all’accordo con l’azienda farmaceutica Pfizer/ BioNtech, ora sta somministrando la terza dose. E, notizia delle ultime settimane, ha scelto di revocare il green pass a chi non la fa. Non come “premio o punizione”, dicono dal Ministero della salute, ma per i dati epidemiologici del Paese: il 75 per cento dei pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni non è vaccinato, il 19 per cento non ha ricevuto la terza dose e solo il 6 per cento ha ricevuto il richiamo. «L’obbligo delle prime due dosi è stato solo per gli ebrei – spiega mons. Mattiazzo – La percentuale di palestinesi vaccinati, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non mi pare sia comparabile a quella israeliana. Ma i virus non sono fermati dai muri. E non c’è, almeno per quello che posso vedere io, una grande cultura della mascherina».
Il Covid ha avuto conseguenze dolorose per la popolazione sul fronte pellegrinaggi. A Betlemme, ad esempio, sono stati molto rari negli ultimi mesi, qualche gruppo o singoli pellegrini sono venuti dall’interno del Paese. «Il governo ha messo regole strettissime per entrare e uscire. Chi entra deve aver fatto due vaccini, un sierologico prima di partire, poi un altro tampone all’aeroporto di ingresso in Israele (l’unico hub vaccinale al momento è a Tel Aviv). Di solito l’esito arriva dopo un giorno, quindi – penso soprattutto ai gruppi di pellegrini – nell’attesa si deve stare chiusi in albergo. Se poi anche solo uno di loro risulta positivo, tutto il gruppo è bloccato per l’intero pellegrinaggio.
C’è poi da dire che Israele ha messo il veto sull’ingresso da alcuni Paesi dove il contagio è molto alto. Per questa ragione, anche qualche francescano non ha potuto fare ritorno in Terra Santa. Le procedure di uscita, poi, non sono meno impegnative». L’assenza dei pellegrinaggi ha recato un notevole danno spirituale e fatto piombare in gravi ristrettezze economiche quanti vivevano dell’apporto dei pellegrini: venditori di oggetti sacri, chi era impegnato nel turismo, nei trasporti o nell’artigianato. «A Betlemme ci sono molti artigiani, soprattutto cristiani, che vivevano della vendita dei loro presepi. Ho conosciuto più d’una famiglia in gravi ristrettezze. I francescani, sotto questo aspetto, pur soffrendo anche loro della crisi, svolgono un’opera ammirabile di assistenza ai più poveri. Una conseguenza di non minor rilievo è che alcuni, perso il lavoro, sono tentati di emigrare all’estero».
Status quo
A Betlemme mons. Mattiazzo si è ritrovato a fare i conti con una “condizione” di cui sapeva, ma apre a tante domande. «Nella Basilica della Natività vige lo status quo. È un trattato giuridico tra le confessioni cristiane che convivono nel luogo sacro: greci ortodossi (che si occupano dell’intera Basilica), armeni e cattolici di rito romano. Sono norme molto strette, che, se non osservate, fanno decadere un diritto. Nella Grotta della Natività, ad esempio, ci sono precisi orari per celebrare, spazi delimitati in cui farlo, posizioni da tenere... Ma... lo status quo è così immutabile che non si possa cambiare con il dialogo e l’intesa tra cristiani? Lo status quo è un riflesso delle divisioni tra le confessioni cristiane. Un miglioramento c’è stato negli ultimi tempi nelle relazioni personali, ma non ancora sul piano istituzionale»