Francesca Schiano rilegge il Sinodo. Non si può prescindere da alcune “fatiche”

«L’ aver seguito, sia pur a distanza, i lavori del Sinodo ha fatto sì che la lettura della Lettera post sinodale Ripartiamo da Cana non abbia suscitato sorprese quanto, caso mai, la consapevolezza della necessità, per la comunità credente, di impegnarsi in un nuovo, enorme, lavoro – anche nel significato originario di “fatica”».

Francesca Schiano rilegge il Sinodo. Non si può prescindere da alcune “fatiche”

A parlare è Francesca Schiano, vice presidente del Consiglio pastorale diocesano di Padova dal 1993 al 1999. «Una prima fatica sarà data dall’esaminare l’esperienza, per offrirla depurata da uno sguardo prevalentemente rivolto a un passato confortante perché noto e vissuto. Una seconda fatica starà nello sviluppare la creatività pastorale, come la definisce il vescovo che ci chiede di metterla in atto. Creatività è un termine complesso di cui sottolineo solo due aspetti: usare la ragione e avere capacità di innovazione cioè di andare dentro il nuovo. Una terza fatica è quella che sempre caratterizza il cristiano: affrontare la sfida di questo nostro tempo malandato con la serenità di chi lo sa, comunque, un tempo salvato e santo e con l’inquietudine di chi ha l’impegno categorico di fare, umilmente, bene il bene».

Come ti sembra che si innesti la Lettera post-sinodale, per l’esperienza che hai, nella strada percorsa dalla Chiesa di Padova? «Ho letto in questi giorni gli Atti del Convegno ecclesiale diocesano del 1977 scoprendo una straordinaria convergenza con il lessico e, in parte con i temi, del Sinodo: Chiesa ministeriale; i ministeri di tutto il Popolo di Dio, radicati in tutti i Sacramenti a partire dal Battesimo; l’azione creatrice dello Spirito... solo per citarne alcuni. Una buona parte del vocabolario ricorrente nella Lettera post-sinodale, poi, a partire da “sinodalità”, “collaborazione”, “corresponsabilità”, è stato patrimonio non solo degli orientamenti diocesani dell’ultimo ventennio, ma anche dell’impegno pastorale. A me pare evidente che il percorso del Sinodo si sia innestato su un cammino diocesano e ne abbia colto alcuni frutti. Altrettanto evidente, tuttavia, è che, se in passato si poteva pensare a un “cambio di rotta” (1977) o a una “evangelizzazione nuova”, oggi ci troviamo di fronte a una sfida diversa, un cambiamento d’epoca, come dice papa Francesco. La novità epocale è data da un lato dalla consapevolezza, ormai ben chiara a tutte le comunità, che siamo una minoranza numerica e culturale: questa trasformazione è stata graduale e in parte mascherata da una adesione consuetudinaria più che di fede, ma è stata veloce. Dall’altro lato pare altrettanto evidente che quello che si definisce come il “modello tridentino”, secondo il quale la Chiesa è strutturata, non è più funzionale né all’annuncio né all’inculturazione della fede. Anche per questo, penso, nella Lettera post-sinodale si usa spesso il termine “generativo”; la Chiesa, in quanto missionaria, deve sempre generare alla fede, ma oggi ha anche bisogno, in una certa misura, di “rigenerarsi”».

Che germogli individui nella Lettera che… assolutamente (!) vanno coltivati con cura altrimenti la Chiesa di Padova non vive in pienezza ma, citando Piergiorgio Frassati, vivacchia? «La Chiesa “vivacchia”, se si limita a un’opera di “restauro” e non dà un senso nuovo al suo essere “missione” in quest’epoca contrassegnata sì dalla fine della cristianità, ma non dalla fine del cristianesimo. Nei tre criteri indicati nella Lettera, con puntuali riferimenti alla Evangelii Gaudium, il vescovo sintetizza, almeno in parte, il senso e la direzione della missionarietà. Contemporaneamente sono indicate tre polarità che non esauriscono le difficoltà irrisolte e le prospettive non pienamente definite. Siamo di fronte a un cammino che, come ricorda il vescovo, si configura come “processo” e quindi richiede agilità e saggezza nel progettare e nel verificare; paradossalmente, quindi, sia i criteri indicati, sia le polarità costituiscono germogli o possono contribuire a farne nascere di nuovi».

Che fragilità porta con sé la Lettera? Penso a fragilità su diversi fronti: relazionale, pastorale, rispetto a un ritorno all’essenziale che si respira – grazie a papa Francesco – nella Chiesa universale, organizzativo... «La Lettera porta inevitabilmente con sé le fragilità di ogni prodotto umano, benché si sia lavorato invocando le Spirito e con l’accompagnamento fedele della preghiera della Diocesi tutta. Vi possono essere legittimi dubbi e opinioni critiche. Credo che un elemento fondamentale sarà dato dalla capacità di proseguire, evitando che dissenso e critica paralizzino e inaridiscano. Bisogna, tuttavia, anche fare grande attenzione sia ai pericolosi entusiasmi che non tengono conto della fatica del cambiamento, sia al rischio di ignorare o addirittura gettar via tutto quanto è stato fatto in passato».

La Lettera è stata consegnata dal vescovo Claudio, durante incontri molto partecipati, nelle mani degli organismi di comunione (in chiusura di mandato) e degli operatori pastorali. Verrà presa in mano, letta, studiata... ma come pensi che andrebbe “trafficata”, pensando ai talenti di evangelica memoria, perché possa realmente portare frutto? «Credo che potrebbero essere preziosi due movimenti convergenti. Un movimento dal cuore di ogni comunità attraverso i consigli pastorali. I consigli uscenti, che hanno seguito i lavori sinodali e hanno ricevuto, per così dire, le prime “consegne”, possono trasmettere ai consigli entranti un patrimonio di esperienze e suggerimenti critici e propositivi. I consigli rinnovati possono dar vita ad alcune “sperimentazioni” e, dato che si sta attuando un processo, continuare a contribuire in modo creativo e critico. Il secondo movimento è dall’alto, o meglio: dal cuore del vescovo e dagli organismi diocesani di comunione: Consiglio pastorale diocesano, Consiglio presbiterale, Consulta delle aggregazioni laicali. Questo secondo movimento dovrebbe fornire delle linee guida, per evitare un appiattimento sulla pastorale ordinaria – che comunque assorbe legittimamente energie progettuali e attuative – ma anche il nascere di progettualità disorganiche e disancorate dalla realtà».

Rispetto alle tre proposte individuate in assemblea sinodale – sui ministeri battesimali, sui piccoli gruppi della Parola e sulle collaborazioni tra parrocchie – che futuro immagini? «I “piccoli gruppi della Parola” e la “collaborazione tra parrocchie” di fatto sono già operanti in Diocesi. Le esperienze riguardo ai primi sono sicuramente in parte diverse, nei fini e nella realizzazione, rispetto alla proposta generale della Lettera, ma una valutazione attenta dell’esistente – o dell’esistito – può aiutare nella progettazione e attuazione. Anche la collaborazione tra parrocchie è già attiva, talvolta secondo aggregazioni più spontanee, talaltra attraverso una strutturazione pensata a livello di coordinamento vicariale. Attualmente le parrocchie che collaborano lo fanno in parte per una sorta di “muto soccorso”, sulla falsariga del principio di sussidiarietà; d’altro canto esistono anche esperienze che vanno oltre: per esempio, collaborazioni che tengono presenti i diversi ambiti dell’esperienza, soprattutto laicale, e l’urgenza del “pensare insieme” che è uno degli strumenti fondamentali per affrontare la complessità dell’oggi».

E la proposta delle equipe ministeriali? «Qui si apre un campo vastissimo di problemi e di opportunità. Un primo aspetto problematico, non l’unico, è dato dal tema della laicità e del sacerdozio comune. Se ne discute dalla Lumen Gentium (1964, ndr), oggi c’è l’opportunità di una piena valorizzazione della ministerialità laicale, ma perché essa sia reale ed efficace sono necessarie alcune condizioni. In primo luogo la consapevolezza, da parte di tutti, che la vocazione laicale non è residuale né inferiore rispetto al ministero ordinato e questo per evitare forme di “clericalizzazione”, che possono essere proprie anche del laicato stesso quando non pienamente consapevole della propria vocazione o quando considera il servizio in termini di potere. Vanno quindi ben definiti la funzione, vorrei dire la missione, delle equipe all’interno della comunità; i livelli e i modi della corresponsabilità e della collaborazione tanto con i presbiteri che con i consigli pastorali, e questo si può fare anche dando vita a processi di crescita di preti e laici insieme in un clima di spiritualità che favorisca le vocazioni».

Altri nodi su questo fronte? «Quelli della individuazione dei candidati laici e della loro formazione: in quali sedi? Parrocchie, collaborazione tra parrocchie? Vicariato? A livello diocesano? Su quali contenuti biblici, teologici, pastorali e con quali metodi pedagogici? Ricordiamo che oggi la formazione di un giovane si affida a metodi diversi rispetto a quella di un adulto. E ancora: come preparare le comunità che spesso sono più pazienti rispetto ai limiti del presbitero rispetto a quelli del confratello laico? E sono solo alcuni tra i problemi più evidenti che dovremo fronteggiare; si tratta di affrontare la complessità con consapevolezza, impegno, slancio.

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