Casa circondariale di Padova. «Tiriamo fuori le tracce di umanità»
Casa circondariale di Padova Don Mariano Dal Ponte, il cappellano: «È difficile costruire percorsi di accompagnamento, perché la permanenza è breve». Ma il vero problema è il dopo...
Via Due Palazzi, casa circondariale di Padova. Il caseggiato a due piani in pietra a vista, costruito nei primi anni Sessanta, sembra quasi sparire all’ombra dell’imponente edificio in cemento armato della vicina casa di reclusione. Attualmente sono oltre 220 i detenuti affidati alla struttura. Un numero in continuo, incessante aumento. In maggioranza si tratta di giovani, il 70 per cento immigrati. Li chiamano i «dimenticati». Da tutto e da tutti. Dai media, che se ne occupano solo quando scoppia una qualche crisi inaspettata. Persino dai progetti di reinserimento sociale e lavorativo che faticano a essere applicati a detenuti che fanno in tempo a uscire ancor prima di iniziare qualsiasi attività. Per don Mariano Dal Ponte i «dimenticati» sono semplicemente i nostri «fratelli poveri». Cinquantadue anni, originario di Salcedo, don Mariano è il cappellano della casa circondariale. Un incarico assegnatogli quattro anni fa, dopo quasi diciotto trascorsi in Kenya, tra altri «fratelli poveri» come quelli del centro Saint Martin di Nyahururu di cui è stato direttore, a contatto altrettanto quotidiano con fragilità, dipendenze, disabilità anche psichiche. «I detenuti che incontro tutti i giorni al circondariale sono persone in attesa di giudizio, condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni, quindi non ergastolani, criminali incalliti o destinati a rimanere in carcere per molti anni – spiega don Mariano – Nella nostra realtà padovana si fermano in media non più di 3-4 mesi e, se non si è riusciti ad aprire con loro altre strade, a volte ritornano pure a delinquere. La realtà quotidiana è questa: non c’è il tempo di costruire percorsi concreti di accompagnamento, di reinserimento sociale e lavorativo. Il vero problema dei nostri “fratelli poveri” è il dopo, ciò che accade oltre le sbarre. Fuori, ad accogliere questi ragazzi non ci sono padri, madri, famiglie, strutture, comunità, ma quasi sempre chi li ha fatti finire in carcere». Don Mariano racconta di un incontro avvenuto all’inizio del suo incarico. «I primi incontri sono sempre quelli più forti. Impossibile dimenticare un giovane africano, non più di 23 anni, disperato, solo, rinnegato dal padre. “Papà non mi vuole a casa”. Un giorno mi urlò contro: “Piuttosto che tu stia qui, preferirei vederti morto”. Ho preferito la strada a quelle mura, sono uscito e ho iniziato a delinquere per finire in carcere. Qui, almeno, sono al sicuro». Molti detenuti che entrano ed escono dal circondariale sono senza fissa dimora, altri arrivano dal mondo delle dipendenze, altri ancora da fragilità legate alla salute mentale. Compiono piccoli furti per racimolare qualcosa e comprarsi la droga. Scontano pene brevi e, una volta usciti, spesso non sanno dove andare. «Qualsiasi percorso si metta in piedi esige di procedere a piccoli passi, sempre con grande discrezione, in maniera semplice, senza forzare tempi e modalità, che vanno adattati di volta in volta a casi e situazioni. Tra le iniziative della cappellania, brevi percorsi di catechesi, 4-5 nell’arco di due-tre mesi il sabato pomeriggio, durante i quali le parole chiave sono l’ascolto, il farsi carico delle ferite dell’altro e il rispetto». E ancora: «Le persone arrivano smarrite, cariche di disperazione, rabbia, solitudine. A loro non chiediamo cosa hanno fatto o quale reato abbiano compiuto. Quello che ci interessa è ripartire dal rispetto che spesso non fa parte del loro vocabolario di vita. Il compito della cappellania è cercare di costruire, sempre entrando in punta di piedi nella vita e nel cuore dell’altro, relazioni che aiutino a riconoscere la persona chiunque essa sia, con la sua dignità, il suo percorso fatto di cadute e di errori che non assolviamo per il solo fatto che ci sono stati “affidati”, ma che non prestiamo a giudizi. Il rispetto esclude il giudizio. Quello che cerchiamo di tirar fuori è il bene che c’è in ognuno, quelle tracce di umanità che ancora possiamo trovare, basta solo volerle scorgere. Un’umanità che, per quanto ferita e sbagliata, può ancora salvarsi e salvarci. Siamo tutti figli di Dio, amati da lui senza distinzione». Nella stanza adibita a cappella, all’interno della casa circondariale, il tempo è scandito da gesti semplici. È domenica mattina. I detenuti si ritrovano per la messa. Bastano poche cose: un tavolo, il Vangelo, il calice con l’eucarestia. Il resto lo fanno il raccoglimento e il silenzio, la partecipazione e l’ascolto. Un momento così intenso si respira ormai in pochi luoghi: «Si vive un tempo forte in cui si avverte, nitida e potente, la presenza del Padre». La messa si conclude con una stretta di mano e un abbraccio. «Quando il periodo di reclusione finisce – prosegue il cappellano – qualcuno passa anche a salutare. Poco tempo fa un ragazzo ha aspettato che arrivassi per dirmi: “Sei stato per me un fratello, un padre, una madre, una famiglia. Grazie per essere stato per la prima volta accolto e rispettato”». L’urgenza di non far cadere nel vuoto alcuni percorsi intrapresi dalla cappellania della casa circondariale è destinata a trovare risposta in un’iniziativa della parrocchia di Montà. Il progetto si intitola “Dove poggiare il capo”, ad approvarlo è stato il consiglio pastorale che, nei prossimi mesi, metterà a disposizione di alcuni ex detenuti del circondariale un appartamento nella foresteria della parrocchia. Un altro appartamento, sempre nello stesso edificio, è già a disposizione della casa di reclusione. A dare una mano saranno anche i volontari della cappellania del carcere. «È una risposta che arriva dal territorio e dalla stessa comunità in cui si trova il carcere. Trovare luoghi, persone, comunità pronte ad accogliere sono segni di speranza da coltivare con fiducia, a conferma che altre strade, proprio laddove mai nessuno scommetterebbe, sono sempre possibili».
Uniti nel dono: sostegno ai nostri sacerdoti
In Italia ci sono oltre 32 mila sacerdoti. Sono testimoni del Vangelo e ogni giorno portano aiuto e speranza, senza dimenticare nessuno. In particolare, 29.400 sono in attività nel nostro Paese, che conta 227 Diocesi e 25.600 parrocchie; 300 operano in terra di missione; 2.600 sono anziani o malati. «Promuovere e raccogliere le offerte a sostegno di tutti i sacerdoti delle Diocesi italiane, inclusi gli anziani e malati e quelli in missione all’estero, è importante – si legge nel sito unitineldono.it – perché dal 1990 il loro sostentamento non è più a carico dello Stato, ma è affidato alle persone che stanno loro accanto. Quindi a tutti noi». Sul sito unitineldono.it si trovano – oltre al racconto dell’impegno dei sacerdoti – anche le modalità per dare il proprio sostegno economico alla loro opera.