Cantiamo l’alleluja: durante le tenebre, lui rendeva la croce verde come i pascoli
Mentre all’ora sesta le tenebre scendevano sul Calvario e sul mondo, lui rendeva la croce verde come i pascoli delle pecore
La preghiera cristiana non si muove dal basso all’alto, non è il grido della creatura che da terra volge lo sguardo all’Olimpo. Trapassa lo spazio, quasi non volendo collocare Dio da qualche parte; credendo che lui sia davvero un “Tu”. Per questo gli architetti cristiani hanno plasmato i luoghi santi evitando che fossero banali contenitori. Lo spazio è smarginato, non presume di esaurire qualcosa. L’abside introduce una linea curva che si protende verso il sole che sorge, anche se il cristianesimo delle origini, ancora più radicale, perforava la parete orientale con la porta. Nel nostro Battistero, essa ospita un’absidiola, e qui la mano di Giusto de’ Menabuoi, guidata da fini teologi, dipinge la chiave dell’intero ciclo pittorico, che non accetta di piegarsi a una sequenza cronologica. Ecco il glorioso sacrificio del Golgota. La discesa agli inferi. La fuga in Egitto del piccolo Gesù. La tomba vuota, con le mirofore che incontrano gli angeli. La Trasfigurazione. Tutto questo mistero preme e invita a invocare nella preghiera l’Oriens. Non si può non tornare alle parole di Gesù, che gli evangelisti riportano descrivendo la nube del Tabor: «Non dite a nessuno la gloria che avete contemplato». La parete orientale del Battistero è carica del dramma del tempo. Noi moderni avremmo preferito un gloriosissimo Risorto, che non c’è. Le mirofore sono attonite. La pietra è ribaltata. L’angelo dà il lieto annunzio, ma il Signore è assente. Il sacrificio di Cristo, che abita ogni istante della vita della Chiesa, è avvolto dalla nube del Tabor. Sarebbe troppo semplice attribuire a Gesù di Nazareth il merito di essersi caricato delle nostre colpe per soddisfare qualcuno. Chi? Il Padre, la fonte dell’amore? Perché Dio pone sulle proprie spalle il peso del mondo? Perché grida l’abbandono? Perché la morte lo trapassa come lancia? Perché è schiacciato come uno schiavo in Egitto? Perché discende nelle tenebre degli inferi? Qualcuno mirava al sangue che compensasse le nostre iniquità? Sarebbe una visione pagana del sacrificio... È invece il mistero per cui tutta la Trinità santa entra nell’abisso della morte. Alla fine dell’epoca gotica, i pittori vi accennavano dipingendo il Padre che, da dietro la croce, sorreggeva le braccia del Figlio e dall’alto lo guardava e gli mandava il bacio dello Spirito Santo. Se tutta la Trinità entra nella morte, nel peccato, a noi è dato solo di vedere che è una nube luminosa. «Non dite a nessuno...». Questo divieto si snoda lungo l’intera storia del mondo. Se davvero siamo cristiani, quando le campane accompagnano il triplice alleluja pasquale, quando dall’alto dell’ambone risuona l’Exultet, quando si canta Gloria in excelsis Deo, nessuno di noi può osare cancellare con una spugna la croce. Di fronte al male del mondo, che sembra la grande obiezione a Dio, alla sua esistenza persino, ne recepiamo l’insidia, tremiamo e ci aggrappiamo ai vetri della più infantile apologia. Ma dovremmo ascoltare le labbra di Gesù che scende dal monte Tabor: «Non dite a nessuno la gloria che avete contemplato». Vorremmo avere come grande apologia la mano con cui Giobbe si copre la bocca, il silenzio di Abramo che alza il pugnale sul figlio. La paura di Giovanni, Pietro e Giacomo, quando la nube li avvolge. Signore, non comprendiamo. Sostienici, Signore. È proprio una nube questo mistero del mondo. Ma tu brilli dentro quella nube. Essa è luminosa, non oscura. Perché, mentre all’ora sesta le tenebre scendevano sul Calvario e sul mondo – è la stessa nube, lo stesso mistero! – lui, innalzato sul patibolo, livido di morte, rendeva quel legno verde come i pascoli delle pecore. Mentre il buio avvolgeva la terra, da quel legno sgorgava un fiume d’acqua viva. Non era la roccia di Massa e Meriba, che saziava la sete degli ebrei. Non era il pozzo di Sicar, che dava un sorso d’acqua a Gesù. «Fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno...». Per questo la nube è luminosa: perché Dio è lì dentro. Non la fa scendere sulla terra: la chiama a sé, se ne fa avvolgere. A noi l’umiltà di Giobbe, fino alla fine dei tempi. Il sepolcro è vuoto, non ne dubitiamo. L’alleluja dobbiamo cantarlo fino a che le nostre gole si crepano. L’Exultet deve rimbalzare in ogni angolo dell’universo, rinunciando però ai semplicismi. «Non dite a nessuno la gloria che avete contemplato». Noi non sappiamo perché è gloria, Signore, ma ci attacchiamo, come la tua santissima Madre, a quel legno, che ora è verde come i pascoli delle tue amate pecore.
don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia