Svizzera: voto di pancia al referendum
L’esito del referendum del 9 febbraio, promosso dal partito conservatore Udc/Svp per chiudere gli ingressi ai lavoratori Ue, ha stabilito un punto fermo, anche se la distanza tra “sì” e “no” si riduce a una manciata di schede: nella Confederazione gli stranieri sono troppi, è tempo di cambiare.
C’è chi parla al cuore e, magari, al cervello, e c’è chi parla alla pancia. Chi, in politica, si schiera in quest’ultima categoria, oggi come oggi porta a casa un mare di consensi. Così sta avvenendo in ogni angolo d’Europa e la Svizzera non fa certo eccezione. Così il governo federale dovrà rivedere gli accordi con l’Unione Europea, che riguardano anche la cosiddetta libera circolazione dei lavoratori: di quelli europei verso la Svizzera, secondo quantità già contingentate, e degli svizzeri verso il resto del continente.
La Commissione europea ha lanciato i suoi garbatissimi strali e, in una nota ufficiale, «si rammarica del fatto che un’iniziativa per l’introduzione di limiti quantitativi all’immigrazione sia stata approvata» dal voto popolare. «Questo va contro il principio della libera circolazione delle persone tra l’Ue e la Svizzera», fa notare Bruxelles, dove ora si esamineranno le implicazioni di questa iniziativa per i futuri rapporti tra i 28 e il governo di Berna.
I commentatori più attenti hanno subito fatto presente che “la Svizzera non è un’isola” e che dunque il (tutto sommato leggero, da quelle parti) peso della crisi, la (relativamente tenue) disoccupazione, e l’accresciuta (quella davvero pesante) immigrazione nella Confederazione elvetica, hanno fatto breccia anche tra gli elettori di Lugano, come quelli di Zurigo e Basilea. I quali, preoccupati per il proprio futuro, hanno risposto alle sirene populiste, e a tratti xenofobe, dei leader della destra.
Non c’è da stupirsi e nemmeno di può ritenere che simili tentazioni riguardino solo la Svizzera: di recente anche diversi paesi aderenti all’Unione europea hanno fatto balenare l’ipotesi di chiudere i cancelli agli altri cittadini Ue, specie a quelli dell’Est; e nemmeno si può trascurare che in Italia e nelle nazioni mediterranee il fenomeno migratorio abbia destato analoghe e comprensibili tentazioni.
Detto ciò due ulteriori osservazioni non appaiono marginali. La prima. Se il senso di solidarietà – pure invocato da varie voci nazionali, chiesa compresa – pare non abbia giocato alcun ruolo nel referendum elvetico, neppure la gratitudine è stata decisiva: in fin dei conti la Svizzera qualche debito lo deve pur riconoscere verso quel quarto di popolazione immigrata che vive e lavora all’interno delle sue frontiere, pagando le tasse e integrandosi senza creare problemi. E qualche grazie il Ticino e gli altri cantoni lo dovrebbero pur riconoscere alle decine di migliaia di italiani che si sono rotti la schiena nel corso della storia contribuendo alla ricchezza rossocrociata.
La seconda. In quanto a “simpatia” gli svizzeri non hanno certo guadagnato punti col voto di domenica. Già nelle graduatorie mondiali il paese non appare – per varie ragioni – ai primi posti: gli svizzeri tradizionalmente preferiscono stare tra loro, circondati da malevoli stereotipi (la cioccolata, gli orologi e la maniacale precisione, i corni di montagna e lo jodel, l’Emmenthal e le banche, con tanto di segreto bancario). C’è da augurarsi che negli altri paesi europei non attecchisca mai un sentimento svizzeroscettico.