La liturgia di ordinazione: nel silenzio opererà lo Spirito
È un rito, quello dell’ordinazione, dalla ricca e articolata simbologia, che accoglie al suo interno elementi di antichissima tradizione. E che ha al suo cuore un momento di silenzio, di meditazione e contemplazione dell’opera dello Spirito Santo.
È da qui che conviene partire nella seconda tappa dell’itinerario in vista dell’ingresso in diocesi del vescovo Claudio
Don Gianandrea Di Donna insegna liturgia alla Facoltà teologica del Triveneto ed è responsabile della commissione regionale per la liturgia della Conferenza episcopale triveneta.
«Ancora prima del Concilio, nella prima metà del Novecento, ci si è resi conto che lungo la storia del cristianesimo molti riti si erano andati sovrapponendo l’uno all’altro, al punto da rendere difficile individuare quale fosse la sostanza del sacramento dell’ordine. Alla fine, con un intervento che fugò ogni dubbio, nel 1947 papa Pio XII definì che il sacramento dell’ordine è trasmesso per mezzo dell’imposizione delle mani e della preghiera di ordinazione. Grazie a papa Pacelli la chiesa contemporanea ha così recuperato tutta la forza di un gesto che ci rimanda agli Atti degli Apostoli (13,1-4): “Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: ’Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati’. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono”. Dai primi invii apostolici al nostro tempo, seppur coperta o nascosta entro una densa serie di simboli, questa radice non è mai andata smarrita e anche questa domenica, nell’ordinazione del vescovo Claudio, ci si ripresenta in tutta la sua forza».
Le mani sono quelle del vescovo che presiede il rito. Il gesto dell’imposizione avviene nell’assoluto silenzio, preceduto dal canto delle litanie e seguito dal canto della preghiera di ordinazione. Il vescovo eletto è prima prostrato a terra, quindi inginocchiato. Qual è il senso di quelli che potrebbero apparire solo dettagli da cerimoniale?
«Il numero dei vescovi – almeno tre, se non in casi di estrema necessità – è segno della comunione tra tutti i membri del collegio episcopale, in cui il nuovo vescovo è accolto come successore degli apostoli. Che ciò avvenga nel silenzio assoluto e attraverso la sola imposizione delle mani sul capo dell’eletto, ha un significato fondamentale: è come se venisse “sospeso” ogni gesto, ogni parola umana, ogni forma rituale, per lasciare spazio solo ed esclusivamente all’opera dello Spirito Santo. Il silenzio sembra diventare il segno più eloquente per esprimere la grandezza e la bellezza di ciò che Dio sta operando».
La scelta di un vescovo, si potrebbe obiettare, è anche questione umana. Magari perfino frutto di delicati equilibri di palazzo, di ragioni geopolitiche, influenzata dalle variegate sensibilità presenti nella chiesa.
«Certamente la chiesa, e in prima persona il papa, sono chiamati a scegliere una persona e, nel farlo, a valutare competenze, dignità, preparazione, adeguatezza di un candidato all’episcopato. Ma qui ci si ferma. Non si diventa vescovo come per naturale e automatica promozione dovuta a meriti acquisiti. Diciamo così: diventare vescovo non è un merito ma una grazia. Se la scelta del candidato è opera dell’uomo, è solo l’azione dello Spirito Santo che plasma e configura pienamente una persona al ministero sacerdotale di Gesù, che consiste nell’offerta della sua vita per tutti noi. È questo il mistero che siamo chiamati a riconoscere nel silenzio e nella adorazione, sapendo che l’opera di Dio travalica ogni nostra umana possibilità».
Ecco perché il vescovo eletto è prostrato a terra...
«Appunto. La chiesa, di fronte al mistero dell’azione di Dio nella persona dell’eletto, non solo è cosciente della sua assoluta indegnità ma anche in qualche modo della inadeguatezza della scelta che ha fatto. Che non vuol dire essere sprovveduti, ma riconoscere che presentiamo a Dio una creatura, con le sue fragilità, i suoi limiti. Provo a riassumere: la chiesa presenta un candidato degno, ma ciò che lo conforma a colui che è “il vescovo delle nostre anime”, Cristo Signore, è solo l’opera di Dio. Questo evento si compie, appunto, nel silenzio e nella più evidente umiltà di chi sta steso a terra».
Mentre viene cantata la preghiera di ordinazione, due diaconi tengono sul capo dell’eletto il libro dei vangeli aperto. Cosa vuole esprimere questo gesto?
«Vuole ricordarci un paradosso, come spesso fa la liturgia. Se vescovo in greco significa “chi guarda dall’alto”, indicando il controllo, l’autorità, è come se la liturgia dicesse al contempo: “Tu che avrai autorità sopra tutti, ricordati che quell’autorità è il vangelo di Cristo sotto cui anche tu stai”. E al tempo stesso ci ricorda anche che ciò che lo consacra, che lo abita, è lo stesso vangelo, la buona novella che è Cristo stesso. Come diceva sant’Agostino, “l’essere cristiani è per noi... l’essere vescovi è per voi”. Potremmo dire analogamente, “mentre sono il vostro pastore, con voi sono anch’io pecora dell’unico pastore”. E la prima ragione per la quale si diventa vescovi è perché la parola di Gesù venga annunciata e resa attuale anche per l’uomo di oggi, rimanendo allo stesso tempo fedele alla tradizione apostolica di cui il vescovo è custode».
Prima del cuore del rito – litanie, imposizione delle mani, preghiera di ordinazione – vi sono le interrogazioni. Dopo arriva il momento dei riti esplicativi: l’unzione crismale del capo, come segno di piena partecipazione al sacerdozio di Cristo; la consegna del libro dei vangeli; infine, i segni di sponsalità. Anello, mitria, pastorale, l’insediamento nella cattedra: segno di un cammino che inizia, quasi in analogia al rito del matrimonio...
«Il vescovo da sempre è inteso come sposo della chiesa, e alla sua diocesi si unisce con la stessa logica dell’indissolubilità delle nozze, al punto che in età antica non era nemmeno contemplata l’idea del trasferimento in altra sede. L’anello è il simbolo per eccellenza dell’unione tra gli sposi. La mitria altro non è che una corona, posta sul capo a indicare che la persona del vescovo è giunta a un compimento, a una pienezza, a un “coronamento”: è la pienezza del sacerdozio, di cui l’unzione sul capo è la prima manifestazione rituale. Il vescovo è coronato, portato a pienezza, come sono giunti a pienezza Cristo coronato sulla croce, la Vergine Maria coronata di dodici stelle, i martiri con la corona del martirio, i santi con l’aureola. Certo, il capo coperto è anche simbolo regale, segno di autorità, ma soprattutto vuol dirci che la chiesa di Padova è la corona, il compimento, la pienezza, la causa di santificazione del vescovo Claudio. Che da questa domenica è chiamato a esserne pastore (ecco il pastorale) e a guidarla con l’autorevolezza del suo magistero (ecco la cattedra). Ma prima d’ogni altra cosa a vivere per essa e per il vangelo».